La cosa surreale – mica tanto, così va il mondo baby – è che la musica più popolare adesso, insomma la rap/trap che spopola ovunque, si nutra tanto e volentieri del suo stesso male, ovvero della parte putrefatta del proprio spirito.
Fedez fa un cerchio rosso attorno alle classifiche di streaming che registrano fulmineamente al primo posto “Allucinazione Collettiva” il pezzo con cui cerca di mettere una pezza, o una pietra tombale, vedete voi, al tristo dissing in/out coniugale con Tony Effe, la trionfante star sesso & samba, mentre le sue azioni artistiche volgono al brutto. Fa un lungo salmodiare su come sia andato in frantumi il suo matrimonio e peccatucci connessi, esprimendo una diffusa malinconia che la donna al centro della storia s’affretta a bollare come insincera trovata commerciale.
Ecco. Ma è polvere di stelle al confronto con quello che succede oltreoceano, dove il veterano più turbolento del rap americano, Sean Combs, in arte Puff Daddy, Diddy, P.Diddy e altri nomignoli, è finito in galera con una caterva di accuse ignominiose che minacciano di farcelo marcire, proprio mentre, mica per caso, i suoi vecchi successi e perfino le sue ultime brutte produzioni schizzano in cima alle charts di ascolti streaming: se davvero Diddy è l’orrendo peccatore descritto dalla torma di testimonianze che vogliono inchiodarlo, allora fammi sentire la sua musica, fammi vedere se un po’ di quell’erotismo da strapazzo, intrecciato con crimine, delinquenza, sopraffazione e arroganza grondano dalle sue rime old school e dalle sue vanterie a cui ormai non dava retta più nessuno.
C’è quasi un venti percento di ascolti in più, dicono le rilevazioni delle piattaforme, per non parlare dell’agitazione attorno al suo nome sui motori di ricerca. Che musica produce la testa di un personaggio capace di simili nefandezze? Dev’essere questa la curiosità all’origine di un successo del genere, parente stretta del voyeurismo.
Perché ultimamente Sean Combs aveva quasi mollato il rap e si stava facendo largo nello show business come disinvolto imprenditore, con capitali investiti in marchi di superalcolici, web tv e altri deprecabili generi d’intrattenimento contemporaneo. Ma restiamo alla notizia: Puff Daddy verrà processato per una lunga serie di reati riassunti in una definizione sconcertante: «tratta di essere umani a scopo sessuale».
Gli hanno rifiutato una cauzione da cinquanta milioni di dollari e un esercito di vip sembrano essere a un passo dall’essere coinvolti, forse travolti, certamente alla frenetica ricerca di un riparo sicuro. Harvey Weinstein e il MeToo sono stati prontamente rispolverati, in versione vitaminizzata. Ma stavolta niente mogul del cinema depresso e in cerca di perversioni da camera d’albergo, piuttosto un gangsta tutto diamanti, piume e pellicce, con la fissazione delle orge lunghe tre giorni, cosparse di ogni possibile droga, disseminate di violenze e sottomissioni prezzolate, gigolò, ammucchiate, guardoni, scambi, tutto il campionario che gira dove ci sono tanti soldi – di qua e di là dell’Atlantico, lo sappiamo.
A denunciare Combs ci ha pensato l’ex compagna Cassie Ventura che l’accusa d’averla forzata a prestazioni sessuali d’ogni genere sotto l’effetto di stupefacenti, con contorno di perversioni e violenza fisica. A ruota si sono presentati tutti gli altri, solito copione, senza distinzione di sesso, razza e inclinazioni, tutti molestati, aggrediti, violentati dal rapper in ogni angolo d’America New York, Miami, Los Angeles.
Pare che lui avesse battezzato “White Party” le faraoniche cloache nelle quali coinvolgeva tonnellate di carne sessuale, alcuna pregiatissima, come quella del minorenne Justin Bieber, l’ex compare Jay-Z, il pazzissimo Kanye West, forse perfino quel pacioccone di Leo Di Caprio versione lupo di Wall Street, il solito principe Andrea e chissà quanti altri.
Diddy si proclama innocente, dice che vogliono solo spillargli soldi, intanto ne versa una camionata ai migliori avvocati, un plotone di principi del foro incaricati di sfilarlo dalla graticola, da cui potrebbe scivolare verso un ergastolo, o magari cavarsela per il rotto della cuffia – di questi tempi e con l’aria che tira non pare facile.
In cella pare l’abbiano messo, con senso dell’umorismo, assieme all’imbroglione Sam Bankman-Fried al Metropolitan Detention Center di Brooklyn, e il processo che l’aspetta verrà sbranato dai media americani come nuovo capitolo della saga degli eccessi proibiti, divenuta terapia consolatoria per un pubblico desolato dalla propria miserabile perdita d’ogni entusiasmo.
Ma abbandonando Puff Daddy al suo destino e ai virtuosismi dei suoi legali, viene voglia di concentrarsi un attimo su tutto ciò su cui è stata edificata la sua fama: il rap inteso come musica, codice, linguaggio, ma soprattutto come rappresentazione di uno stile di vita e di un sistema di desideri.
Il rap non per quello che era come prodotto popolare, ma per quello che è diventato come merce commerciale e sinonimo della avidità. Un suono strappato dal suo senso, ucciso, svuotato, riempito d’immondizia delle illusioni. Il rap svaccato nella volgarità, nell’ostentazione, nella sopraffazione, nella trasgressione esibizionistica, nella persecuzione dei deboli, nel culto della forza dei bodyguard. Il rap come culto affollato di manager, produttori, assatanati affaristi, sballottata da traffici loschi, ottenebrato dai narcisismi.
Possiamo dirlo: Puff Daddy era la versione tollerata e perlopiù venerata di questa buffonesca messinscena. Poteva essere cafone, assurdamente provocatorio, ingiustificatamente violento, manesco, sempre armato, odiato, silenziosamente sopportato, ma anche fragorosamente invidiato. Ma è ora di dire che una figura come la sua sfocia nel disgusto e ciò che ha fatto per quella musica somiglia a scavare una fossa, nella quale insieme a lui si sono infilati dozzine di cloni, assetati di dollari, sprovvisti di civiltà, convinti che iscriversi alla più malandata, vistosa esagerazione fosse la scorciatoia per la celebrità, il lusso, ovvero la felicità.
Non so quanta voglia avete di seguire questo MeToo del rap, forse nessuna, vista la qualità del cast in scena. Magari la voglia sarebbe di veder sprofondare tutto questo teatro dell’assurdo nell’oblio e nella disgrazia. Ma non andrà così, anzi, al contrario, sembra di vedere tutta la tentazione in circolo d’andare oltre, di “vivere rap”, schiattandosi di oro, sesso e sostanze, nell’acqua tiepida di una piscina piena di sconosciuti, con un disgustoso puzzo di sudore e pollo fritto.