Il suo “gesto artistico” trae origine dalla famiglia di artigiani e dagli artisti della piccola comunità rurale in cui è cresciuta, a Honesdale, in Pennsylvania. Il percorso formativo l’ha poi portata a crescere cercando esperienze di studio a Philadelphia e New York, per poi tornare a vivere in campagna. La sua arte – una fusione di saperi artigianali e studio formale –, è intrisa di curiosità verso pratiche antiche, dalla lavorazione della carta ai tessuti, e incarna un legame profondo tra la sua evoluzione artistica e le esperienze di vita. Il passato e la memoria si riflettono nei materiali, con un’attrazione per gli oggetti rotti e scartati, che evidenziano anche una grande attenzione nei confronti dell’ambiente e l’inquinamento, tema sentito ancora più urgente a causa degli effetti climatici sulle attività economiche della comunità rurale in cui l’artista è cresciuta e formata.
L’abbiamo intervistata cercando di scoprire la sua pratica e il suo approccio tecnico-artigianale, che la discostano profondamente da tanta arte statunitense che vede sempre più l’artista come un “progettista visuale”.
Cosa hai studiato e come sei giunta al tuo attuale risultato artistico?
Sono cresciuta in una famiglia di artigiani, è da lì che è iniziato il mio “studio”. Ho cercato anche di apprendere da artisti presenti nella piccola città rurale, con i quali ho fatto l’apprendistato. Successivamente ho frequentato la Tyler School of Art a Philadelphia, dove ho studiato vetro, ceramica e pittura. Ho poi completato il mio BFA presso Parsons, a New York, concentrandomi su pittura e scultura. Sento che il mio lavoro è una fusione di molte cose che ho vissuto e studiato, di tutto ciò che ho vissuto. Non sarei potuta giungere a questo processo se non fosse stato per la vasta gamma di arte e mestieri a cui mi sono affacciata e in cui mi sono voluta immergere, mettendomi alla prova in prima persona.
Qual è il tuo rapporto con l’arte del passato?
Gli artisti più influenti sono quelli con cui ho lavorato direttamente, tra cui Ioannis Glykokokalos e Charles Simonds, pittore astratto e scultore. Vedere semplicemente la possibilità di essere un artista lavoratore è stato d’ispirazione: mi ha dato speranza e motivazione per intraprendere questa strada. Poi ovvio, sono sempre stata una fan – e si vede – di Joseph Cornell e Joan Mitchell, ma anche di Agnes Martin e Kiki Smith. Ce ne sono davvero troppi per citarli tutti: ovviamente guardo e studio le tecniche di tutti gli artisti. Sono fatta così. L’interpretazione di soggetti simili da parte degli artisti ha esiti molto diversi, ed è molto interessante.
E con il passato e la memoria? Sembrano essere due dimensioni molto importanti.
Il passato e la memoria giocano un ruolo nel mio lavoro attraverso i materiali, i processi e le tecniche. Ci sono materiali e oggetti che mi chiamano, e materiali e oggetti che si chiamano a vicenda. È come se avessero aspettato il mio arrivo per essere uniti in qualche forma. Sono spesso attratta dalle cose rotte e scartate, oggetti che erano una volta usati e amati sono poi stati gettati via. Combinare questi oggetti, che hanno tanta personalità, con altri materiali dà loro una vita nuova e diversa, e accende ricordi del passato.
Mi sembra di comprendere che tutto ciò è possibile grazia alla tua passione per la riscoperta di pratiche artigianali antiche: possiamo dire che la tua arte racconta l’America rurale meno conosciuta?
Non sono sicura delle pratiche antiche, forse meglio parlare di saperi artigianali di una volta. Sono una persona orientata allo studio attento dei processi e delle tecniche: amo conoscere tutti i passaggi necessari per ottenere un prodotto finito. Crescendo nella Pennsylvania più rurale costruivamo sempre le cose da zero: dalla cucitura di vestiti alla costruzione di case e mobili, fino alla fabbricazione di oggetti in ferro. L’oggetto doveva essere utilitario o decorativo. Ero affascinata dal processo, dal “come si fa”. Sono scrupolosa, quasi maniacale: mi piace sapere come ogni parte di un oggetto è fatta e quali sono le sue origini. Questo mi ha portata ad apprezzare cosa si può fare trasformando materiali semplici. Crescendo, ho portato nel mio lavoro tutto questo bagaglio di conoscenze: dalla cucitura alla lavorazione del legno. Ci tengo a dire però che il mio lavoro non è solo artigianato: combino il saper fare con un mio linguaggio visivo, che include una visione globale e grandiosa dello e nello spazio.
Ami il grande formato: come ci arrivi e come lo governi?
Ci tengo a raccontarti come ha avuto origine il mio “grande formato”: un amico mi ha dato uno spazio commerciale da riempire con la mia arte. Ho quindi creato un soffitto ondulato a cono di carta, che ha poi scatenato l’idea di coprire il mio studio utilizzando internamente questo metodo. Quella è stata la prima installazione delle “grotte di carta”. Questo comprendeva l’intero spazio di oltre settecento metri quadrati, compresi corridoi, pareti e soffitto, formando un’opera d’arte in cui potevi entrare e “vivere”. Dopo tre mesi di lavoro con familiari e amici, l’installazione è stata aperta al pubblico e ha ospitato musica dal vivo, poesie, ma anche cene e feste con danze. L’opera sembrava viva e cambiava ad ogni evento. Da questo progetto ho capito e maturato un metodo preciso che ora è il mio: tutto inizia tipicamente con una visita lunga e attenta al luogo, per avere una percezione generale dello spazio. Se prima l’arte per me era un’esperienza solitaria, ora so e voglio che sia un momento di unione e condivisione, un lavoro di gruppo, dove le persone si muovono intorno agli schizzi che preparo dopo aver studiato lo spazio. A un certo punto, uno di questi disegni si adatta chiaramente all’ambiente. Una volta iniziata l’installazione ci sono sempre modifiche e aggiunte al “disegno” originale. Lo spazio e il processo chiedono spesso di più o meno rispetto all’idea originale: ormai mi conosco e lo prevedo. In genere uso un processo di aggiunta per determinare la forma finale: non vado mai per sottrazione.
Come fai però a capire quando è finita un’opera?
Mi fermo per vedere e sentire quando l’opera sembra finita in quello spazio particolare, poi continuo a rifinire i dettagli delle estremità delle sporgenze e continuo fino a quando l’apertura della mostra è imminente: se non aprisse, potrei andare avanti all’infinito. Del resto, il lavoro ai miei occhi non sembra mai del tutto finito: vedo le manifestazioni come un progetto in corso, che è un organismo vivente, in crescita, in evoluzione.
Il tuo lavoro non è mai molto colorato, mi sbaglio?
Ho sperimentato con il colore in opere più piccole sia utilizzando carta colorata, sia immergendo opere in vernice acrilica e ho progetti per realizzare installazioni più grandi e colorate. Vedremo. È però vero che proprio il piccolo formato mi permette di sperimentare ed esplorare di più l’intuizione, rispetto alla progettazione alla base delle grandi opere. Capita così a volte che lavori piccoli partano dall’utilizzo di supporti in legno di dimensioni e forme casuali, che portano il risultato a essere più “improvvisato”. Poi ovviamente il mio modus operandi pragmatico prevale e le mie opere tengono sempre in considerazione i vincoli architettonici, ingegneristici e spaziali.
C’è un messaggio ambientale o sociale nel tuo lavoro?
C’è un messaggio intrinseco nel riutilizzo dei materiali. Penso che sia qualcosa di cui siamo tutti consapevoli nel mondo di oggi. Tuttavia, quando ho iniziato a creare le installazioni su larga scala, era più una questione di risorse disponibili. Ho scoperto che molte librerie gettano libri e casualmente avevo bisogno di molta carta. È stata una corrispondenza serendipica perfetta per il mio lavoro.
Il tuo lavoro però sembra andare oltre al riciclo, perché è caratterizzato da forme sinuose, quasi organiche, che richiamano molto quelle naturali.
Sono nata in campagna e ho sempre amato che le piccole strutture e texture nella flora, negli insetti, negli uccelli, nei favi, nei nidi e negli animali. Queste stesse forme si rivelano in così tante aree del mondo naturale e le stesse si trovano anche ovunque: dalle strutture cellulari microscopiche alle più grandi realizzazioni architettoniche degli esseri umani. Spero che il mio lavoro attiri l’attenzione e crei un apprezzamento per queste forme d’arte nella natura, che abituino l’occhio a riscoprirle anche nel piccolo, come se il mio lavoro fosse una lente stessa di e per la natura, da cui in fondo parte.