VelleitàScappare dalla provincia per rifugiarsi in un mondo di feste e poesia

Azzurra e Alba ripongono nell’Erasmus a Cambridge le speranze di chi non si arrende a un destino segnato. Nel suo nuovo libro, “Succede di notte” (Feltrinelli editore), Valeria Montebello racconta le disfunzionalità contemporanee dei millenial. Vi proponiamo un estratto

Valeria Montebello

Giugno 2013

“Dobbiamo comprare qualcosa da mettere sulle pareti. Sono troppo bianche”, disse Alba mentre si osservava allo specchio. Aveva addosso un paio di pantaloncini rosa pallido e una canotta con una pesca disegnata sopra. Stava bevendo uno dei suoi frullati da non so quale potere curativo. Era color melma e perfino lei stava facendo fatica a finirlo. Di solito li beveva quando si sentiva in colpa per qualcosa. I suoi capelli biondi erano legati in una treccia che le arrivava a metà schiena. Si era appena fatta una doccia e ogni volta li legava bagnati per fargli prendere la forma delle onde. Alba era la biondità in persona. Lei era chiara, io scura. Lei pianificava anche quando andare a fare la pipì, io incasinavo la stanza per fagliela mettere in ordine. Lei non conosceva la paranoia, io pensavo di aver ingoiato un pezzo di vetro nascosto nelle polpette o cose del genere almeno una volta al giorno.

Forse proprio per questo, in accordo con la saggezza popolare e gli aforismi sull’amore che si trovano nei Baci Perugina, funzionavamo bene insieme. Eravamo arrivate a Cambridge da qualche mese. Quelli nati in provincia si avventurano nelle grandi città, quelli cresciuti in una grande città vanno a vedere com’è la vita all’estero. Noi avevamo fatto entrambe le cose in troppo poco tempo. Eravamo cresciute in un piccolo paesino in Abruzzo dove divertirsi voleva dire ubriacarsi o drogarsi. Noi non avevamo fatto nessuna delle due cose. Poi ci eravamo spostate a Roma per l’università. E dopo, senza nemmeno avere il tempo di ambientarci come si deve, ci eravamo trasferite in Inghilterra per un Erasmus.

Quando ero piccola mi atteggiavo da snob che non si trovava bene in provincia perché le stava stretta, una che aspettava di andare all’università come fosse il risveglio in una nuova vita e la reincarnazione in un nuovo corpo. D’altronde le uniche persone interessanti sembravano essere quelle che se n’erano andate. Quando tornavano a casa per le feste diventavano elementi esotici che citavano scrittori mai sentiti o ci raccontavano della loro vita nella capitale. Roma appariva come un mondo nuovo, un miraggio. Da noi non c’erano mostre, cinema, edifici storici. L’attrazione principale era un santuario dove una volta, dicevano, era apparsa la Madonna a un contadino, in mezzo ai campi. Arrivavano pullman di turisti russi a immergere i piedi in enormi vasche coperte di maiolica oro e blu, nell’acqua santa. La bevevano dai rubinetti e si bagnavano la fronte, le orecchie, lo stomaco. Ogni cosa che facesse male. Ci avevo provato anch’io qualche volta, ma non avevo mai riscontrato miglioramenti sostanziali. Però l’acqua aveva un buon sapore, era più dolce di quella in bottiglia, o forse era solo suggestione. Quella era l’attrazione più culturale del circondario.

Per il resto c’erano tante rotatorie, outlet, ristoranti con menù mari & monti, centri commerciali dove potevi girare pomeriggi interi, inebetirti con neon, musichette, codici sconto, fino a diventare tutt’uno con quel blocco di molecole indistinte. In compenso c’era il mare. Sciacquava tutte le 49 cose brutte e lo rendeva il posto per il quale, negli anni, avrei provato una struggente nostalgia. Nostalgia perfino per la uazza, una delle parole più difficili da pronunciare ma che iniziò a piacermi molto, nel tempo. La uazza era quella foschia che saliva dal mare e ti entrava nelle ossa, più semplicemente l’estrema conseguenza dell’umidità: la rugiada. Ti faceva arruffare i capelli dopo averli allisciati per ore con la piastra, ma faceva anche altro. Trasformava le cose, le faceva sembrare meno nette, ne dissolveva i contorni, quando si alzava dal mare era come trovarsi dentro un acquerello.

Negli anni a venire avrei barattato tutte le mostre, i teatri, i cinema, i reading e gli spettacoli di stand-up comedy con la uazza ma quando ero piccola non potevo saperlo. Una volta arrivata a Roma, infatti, mi trasformai in una provinciale che odiava lo snobismo delle grandi città. Cambridge era, in teoria, il mix perfetto: un posto piccolo pieno di persone che venivano da grandi città. Appena varcata la soglia del campus mi sembrò di essere entrata in una fiaba per bambini, mi aspettavo di vedere Peter il coniglio con la sua carota in mano, vestito da contadino, saltellare verso di me e parlarmi del raccolto. Invece si presentò un ragazzo in tenuta da canottaggio che ci scortò verso il nostro dormitorio. C’era una luce particolare intorno, non quella tersa del mare e nemmeno quella nitida e secca di Roma, era una luce offuscata anche quando c’era il sole, una luce che ti faceva pensare al silenzio, alle biblioteche, ai vecchi libri, al loro profumo, e alle cose immobili.

Nonostante fosse un’università con un nome altisonante e l’immaginario mi portasse in un mondo dominato da un’estetica dark academia popolato da divise e società segrete, la realtà mi catapultò in un gigantesco campo scout: i ragazzi indossavano pinocchietti con sotto scarpe da montagna, le Solomon erano le più diffuse, e le ragazze erano spesso in tuta o con gonne al ginocchio, calzettoni e Adidas monocromo. Quasi nessuna era truccata perché voleva dire prendersi troppo sul serio e occupare il proprio tempo in attività frivole. Io ero l’unica con la matita nera colata che mi accentuava le occhiaie. Il viso di Alba, invece, era sempre pulito, non per questioni ideologiche, solo perché stava meglio così. I suoi occhi erano di un blu profondo che al sole virava verso l’argento. Avevano un colore così vivido che qualsiasi aggiunta sarebbe risultata posticcia. Alba era in linea con lo stile del posto, avrebbe potuto essere il volto del campus, la mascotte di Cambridge. Si era ambientata subito. Ovunque andasse, si sentiva a casa. Così, anch’io, con lei, mi sentivo a casa.

Mi faceva provare il famoso caldo di casaTM, che potrebbe essere una profumazione delle Yankee Candle scontate a 6 euro. “Scegli. O compri un poster o fai la spesa,” disse dall’altra parte della stanza. Fare la spesa era il mio incubo. Quando voleva commissionarmi qualcosa bastava mettere come seconda opzione fare la spesa. Vuoi immergerti in una vasca di letame o preferisci andare a fare la spesa? “Che poster vuoi?” dissi. “Non saprei, una cosa colorata, allegra.” “Tipo?” “Boh, tipo Frida Kahlo.” “Non siamo più al liceo, ci sta avere una parete bianca all’università”. Mi guardò malissimo come quando dicevo cose acide senza motivo. “Ok, mi fermo a prenderlo, tanto sto per uscire.” Mi ero disegnata due codine di eyeliner per rendere il mio viso più armonioso. “Che dici?” dissi mostrandole quello che mi ero messa addosso.

Continuavo a chiederle un parere nonostante avessimo passato i diciotto da quattro anni. Portavo una canotta nera e una gonna di lino, sempre nera. Indossavo per lo più colori scuri. Ai piedi delle scarpe basse ma aperte, con dei laccetti incrociati che arrivavano al ginocchio. Un impermeabile sopra. Questo era il massimo della mia eleganza. “Stai bene, carine le scarpe con lo smalto nero. Fetish!” disse roteando gli occhi. Per Alba tutto era carino, anche le cavallette, i gatti che urlano, e l’ombra della morte con la falce in mano. Tutto super carino. Eravamo amiche dall’asilo e la sua è stata l’unica voce che mi aveva detto stai bene anche quando portavo l’apparecchio o pensavo di nascondere i brufoli mettendoci sopra il dentifricio. Mi bastava stare bene per lei. Facevamo spesso seminari sul nostro corpo.

Ce ne stavamo sdraiate ad ascoltare musica e a interrogarci su ogni dettaglio che non ci tornava. Usavamo anche il metro morbido per misurarci seno, vita e fianchi. Ci dicevamo quali fossero i nostri difetti e come provare a migliorarli. Visto che Alba vinceva tutte le comparazioni ci teneva a dire che la pelle ce l’avevo più bella io. Sosteneva che avrebbe ucciso qualcuno per la mia pelle. Eravamo giudici imparziali, ma a volte no. Lei mi chiedeva spesso delle sue orecchie, sosteneva di averle a sventola ed era vero, ma io adoravo le orecchie a sventola quindi in quel caso non riuscivo a essere un interlocutore obiettivo.

Tratto da “Succede di notte” (Feltrinelli editore), di Valeria Montebello, pp. 240, 17€

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