Eversione spirituale I distillati in letteratura, tra esotismo, consolazione e dissoluzione

Leggendo in filigrana la presenza di whisky, rum, gin o assenzio nelle pagine dei capolavori letterari, si scopre un ruolo da co-protagonista nel creare ambientazioni, atmosfere e suggerire visioni della vita

Ernest Hemingway, @LaPresse Torino/Archivio Storico

C’era una volta l’artista “maledetto” dell’Ottocento e Novecento. Ebbene sì, il politicamente corretto non è sempre stato il filo conduttore del mercato e della critica in ambito artistico, anzi era essenziale dell’arte la totale libertà dai parametri del “socialmente accettabile”. I poètes maudits francesi lasciavano ai parnassiani le buone maniere, per dedicarsi al consumo di oppio e assenzio estendendo la propria immaginazione e perdendo le buone maniere, tanto quanto i rocker post-Beatles non lesinavano nell’uso di droghe e alcol per aprire le porte della percezione. Sex & drugs & rock’n’roll era la trimurti per eccellenza di una gioventù in cerca di ribellione, un inno triadico all’eclissi delle generazioni precedenti e del perbenismo borghese. E l’alcolismo di Hemingway esercitava un fascino irresistibile al di là del biasimo, tanto quanto gli eccessi di Gatsby e degli altri protagonisti dei racconti di Fitzgerald, per non parlare dell’attrazione per l’autodevastazione di Charles Bukowski che fa tanto bohémien.

Questa esasperata e affascinante tendenza autodistruttiva, non certo salubre, era frutto di una visione romantica degli eccessi. Se Oscar Wilde paragonava l’allure poetica di un sorso di assenzio a quella di un tramonto, F. Scott Fitzgerald faceva proclamare al protagonista di “This Side of Paradise” di non esser sentimentale, bensì romantico. «La persona sentimentale pensa che le cose dureranno, la persona romantica ha una fiducia disperata che non durerà», scrive il romanziere americano che di questa disperazione ha fatto una cifra esistenziale.

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La tendenza anglosassone agli spirit
Come si colloca allora l’alcol in questo quadro di letteraria dissoluzione? Per la verità le letterature italiana, francese e spagnola sono principalmente imbevute di vino, elemento di tessitura specchio di un costume tradizionalmente legato all’alimentazione e componente essenziale della produzione agricola. E va notato come, salvo figure di reietti e perdenti tra i bar di qualche porto del Mediterraneo, il gotto o il calice siano di fatto associati ai piaceri della tavola oppure a stili di vita trasversali – dall’ombra di vino nei bacari veneziani alla coppa di champagne delle feste glamour.

Diverso invece l’approccio di esponenti della letteratura soprattutto anglosassone alla presenza – spesso ingombrante – degli spirit più che del vino, con una propensione agli eccessi che quasi sempre coniuga l’arte con la dissoluzione. E l’elemento più interessante è un quasi ineludibile parallelismo tra autore e personaggio.

Eppure questa deriva alcolica sembra celebrata dai paradossi di una vita che perde progressivamente di senso. Per dirla con Bukowski (in “Women” del 1978), il problema del bere è che «se succede qualcosa di brutto, bevi nel tentativo di dimenticare; se succede qualcosa di bello, bevi per festeggiare; e se non succede niente, bevi per far succedere qualcosa».

I personaggi belli, dannati e alcolizzati di Fitzgerald e Lowry
Ne accadono allora di cose nella vita degli scrittori, che si traspongono poi nei loro personaggi.

Nel romanzo di debutto “This Side of Paradise”, del 1920, F. Scott Fitzgerald scava nelle vite della spensierata gioventù americana all’alba della Jazz Age e il protagonista Amory Blaine, studente alla Princeton University, vive convinto di avere davanti un futuro promettente.

La felicità effimera narrata (e vissuta) da Fitzgerald rispecchiava la vertigine sociale di quel periodo moralmente permissivo in cui – nella visione dello stesso autore – gli americani abbandonarono le norme sociali e divennero ossessionati dall’autogratificazione. Un’era di edonismo, nella quale l’alcol alimentava come benzina essenziale una vita sociale che per lo stesso Fitzgerald era fatta di cocktail (base gin) e comportamenti al limite della dissoluzione.

Sulla scia della letterarietà degli spirit, anche il protagonista del successivo “The Beautiful and Damned” – lo svogliato laureato di Harvard Anthony Patch – compensa la propria inettitudine e mancanza di qualsiasi vocazione con una vita goduta tra feste e fiumi di alcol. Le aspettative di ricchezza derivate dalla famiglia lo portano, con la moglie Gloria, a scegliere il «magnifico atteggiamento di non fregarsene di nulla… rispetto a quello che scelgono di fare e per le conseguenze. Per non dispiacersi, per non perdere un grido di rammarico, per vivere secondo un chiaro codice d’onore l’una verso l’altro e per cercare la felicità del momento il più fervidamente e persistentemente possibile».

Giusto per concludere la carrellata dei personaggi “alcolici” di Fitzgerald, l’intera scena del famosissimo “The Great Gatsby” è dominata da grandi sbornie – con abbondante presenza di gin e whiskey – e contrabbando di alcol, all’ombra del proibizionismo.

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D’altra parte, l’approccio all’alcol nella prima metà del Novecento era sicuramente più “permissivo” rispetto ad atteggiamenti non necessariamente edificanti di scrittori e artisti. Sembra che lo stesso William C. Faulkner raccontasse un aneddoto spiritoso sulla sua scelta di diventare scrittore: osservando lo scrittore Sherwood Anderson, pensò: «Bel mestiere scrivere. La mattina lavori, il pomeriggio correggi un po’ e prima di cena sei libero di andare a ubriacarti con gli amici». Forse un aneddoto colorito, ma certamente non isolato.

Così, nell’inquietante “Luce d’agosto”, il protagonista Joe Christmas si guadagna da vivere contrabbandando whisky e il romanzo è ricco di descrizioni del suo consumo. Quando Joe lo assaggia per la prima volta «lo bevve, lentamente, senza sentire affatto il fuoco, restando in piedi tenendosi alla scrivania. Il whisky gli scese in gola freddo come melassa, senza sapore».

Anche nelle pagine di John Steinbeck non mancano i riferimenti a whiskey e cocktail. Come in “Cannery Row”, dove il premio Nobel inventa un whiskey miscelato «garantito quattro mesi di vita» chiamato Old Tennessee e venduto solo al Lee Chong’s Heavenly Flower Grocery, snodo cruciale per gli abitanti del villaggio in California.

Tornando nel Regno Unito, nel suo romanzo più celebrato – “Sotto il vulcano” del 1947 – l’inglese Malcolm Lowry condensa le amare riflessioni di un ex console britannico nella città messicana di Quauhnahuac nelle sue ultime ore di vita, tra un omaggio al whisky patrio e i tormenti di gran quantità di tequila e mezcal.

Gin e whisky, tra lifestyle e romanticismo
Fortunatamente la presenza degli spirits in letteratura non è solo legata alla dissoluzione. Nel romanzo “Norwegian Wood” dello scrittore giapponese Haruki Murakami il whisky è importante, diventando un compagno silenzioso nei momenti di introspezione del protagonista, mentre il Philip Marlowe disegnato da Raymond Chandler racconta in prima persona: «Era troppo presto in autunno per quel tipo di pioggia. Mi infilai a fatica un trench e corsi alla farmacia più vicina e mi comprai una pinta di whisky. Tornato in macchina ne usai abbastanza per stare al caldo e interessato».

Nella novella filosofica “La caduta” Albert Camus elogia il gin come «il solo lume in questa oscurità». E il protagonista rivela: «Mi piace passeggiare per la città di sera nel calore del gin». Analogamente il drammaturgo George Bernard Shaw indicava come aiuto per reggere il «dolore di vivere» non solo la letteratura, le superstizioni, il romanticismo, l’idealismo, ma anche il gin.

L’alcol gioca un ruolo importante nel thriller comico di Graham Greene “Our Man in Havana”, nel quale il protagonista – un venditore di aspirapolvere di nome James Wormold – non fa altro che bere daiquiri ed è anche un collezionista di mignonettedi whisky. Proprio le mini-bottiglie di Scotch e Bourbon diventano i pezzi di una partita a scacchi che diventa scena-chiave per un’operazione sotto copertura.

James Bond tra whisky e bourbon
Mark Twain era un grande estimatore dello Scotch, ma anche Ian Fleming doveva esserlo, dato che la sua versione originale delle avventure di 007 vedono un James Bond affascinato principalmente dai whisky scozzesi. In “Vivi e lascia morire”, al bancone del Sugar Ray’s, l’agente ordina Scotch e soda con Felix Leiter e sceglie Haig and Haig Pinchbottle, mentre in “Moonraker” si trova in una locanda a Kingsdown dove «si sedette al bar e aspettò mentre l’uomo versava due misure di Black and White e gli metteva davanti il bicchiere con un sifone di soda».

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Le storie di 007 sono però attraversate anche da qualche whiskey e bourbon (generalmente consumati con soda): in “Vivi e lascia morire” si legge che «Bond ordinò un Old Fashioned e pretese anche un Old Grand-Dad Bourbon, panini al pollo e caffè decaffeinato Sanka, per non rovinare loro il sonno», mentre in “Dottor No” trovandosi in Giamaica «Bond andò alla ghiacciaia, prese una pinta di Canadian Club Blended Rye, un po’ di ghiaccio e acqua gassata, andò a sedersi in giardino e guardò le ultime luci accendersi e spegnersi». In “Al servizio segreto di Sua Maestà” torna il Pinchbottle di Haig e appaiono i bourbon IW Harper’s e Jack Daniel’s.

L’esotismo provocatorio del rum
Pensando al rum e alla sua vocazione romanzesca, viene facile il rimando alle avventure di Jack Sparrow (al cinema) o, più letterariamente, ai racconti di Robert Louis Stevenson con i suoi «Fifteen men on the dead man’s chest / Yo-ho-ho, and a bottle of rum».

La presenza del rum tra le pagine della letteratura mondiale si estende però oltre la menzione, giocando il ruolo di potente simbolo tra avventura, evasione e talvolta trovandosi a rappresentare lo spirito della ribellione. Il distillato di canna da zucchero – che inevitabilmente lega la propria origine alle rotte oceaniche del commercio e della tratta degli schiavi – è stato spesso un elemento cruciale nell’ambientazione delle scene e nella definizione dei personaggi: emblema di ribellione alle convenzioni o compagno di solitudine, ha il potere di coinvolgere nell’evocare mondi esotici e scenari avventurosi.

Se nelle storie di pirati e abbordaggi, tesori e scorribande il distillato evoca il superamento dei limiti, la libertà dalle regole e pure una carica eversiva, il rum è anche il perno della letteratura legata al periodo coloniale e in particolare alla tratta degli schiavi. E talvolta la bevanda diventa simbolo dei costi economici e umani del colonialismo. «Il rum era indispensabile nella pesca e nel commercio delle pellicce, oltre che come razione navale», riferisce Eric Williams in “Capitalismo e schiavitù”, «ma il suo collegamento con il “triangolo dei commerci” era ancora più diretto. Il rum era una parte essenziale del carico della nave negriera, in particolare della nave negriera coloniale americana. Nessun mercante di schiavi poteva permettersi di fare a meno di un carico di rum. Era redditizio diffondere il gusto per i liquori sulla costa».

In “Rum Histories: Drinking in Atlantic Literature and Culture”, Jennifer Poulos Nesbitt interpreta criticamente il rum come un “espediente sessualizzato” nei romanzi “The Flint Anchor” di Sylvia Townsend Warner e “Wide Sargasso Sea” di Jean Rhys, dato che il consumo di rum da parte dei personaggi femminili sfida le strutture patriarcali della vita coloniale.

C’è anche un romanzo noir che ha il distillato derivato dalla canna da zucchero nel titolo e come sfondo: “Punch al rum” di Elmore Leonard. È molto conosciuto perché dal libro è tratto il film “Jackie Brown” diretto da Quentin Tarantino, che porta sul grande schermo le atmosfere complesse e calde di un traffico internazionale di denaro sporco. Ancora una volta, dunque, il rum contribuisce a tratteggiare uno scenario controverso ed esotico.

Una vocazione che lo spirito ha nel suo Dna ancestrale, come sembra ricordare in maniera affascinante il collettivo Wu Ming nel romanzo storico “Manituana”, nel quale per il protagonista l’idioma mohawk «odorava di rum e di pellicce. Era la lingua del commercio e della caccia, dei concili e della diplomazia. Ma prima di tutto, per lui, quella delle ninne nanne». Un’infanzia al profumo di rum.

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