Una stanza vuota, con i mobili e le sedie coperte da teli bianchi, a evocare una casa in attesa del prossimo abitante, pronto a portare a nuova vita i broccati, le argenterie e i falpalà. È questa l’atmosfera nella quale si svolge a Parigi la prima sfilata di Maison Valentino con la nuova direzione creativa affidata ad Alessandro Michele. E in effetti è così che si sente il designer, quando ne parla nella conferenza stampa post show: «Quando sono arrivato nella Maison, non mi è sembrato di entrare in un’azienda, ma nella casa di qualcun altro, una casa piena di oggetti preziosi e fragilissimi, che bisogna aver cura di proteggere», dice.
La fragilità è uno dei concetti portanti di questo suo debutto, ed è veicolata attraverso il pavimento che riproduceva dei vetri rotti, un’installazione dell’artista italiano Alfredo Pirri. Il frantumarsi dei vetri è rievocato anche nel teaser della sfilata per la spring/summer 2025, nel quale le note del piano – che riproducevano lo spartito Pavillon des Folies, titolo e invito della sfilata stessa – facevano lo stesso rumore. Una curiosa coincidenza, se si pensa che nella stessa stagione Hedi Slimane ha prodotto un video di accompagnamento per la sua collezione più riuscita da Celine, che iniziava proprio con dei grandi candelabri in cristallo che si schiantavano sul pavimento di un sontuoso palazzo francese. In effetti, la sensazione generale che si percepisce nel sistema moda di oggi è quella di essere sul punto di rottura: il mondo come lo conosciamo è sull’orlo di spaccarsi.
Un’atmosfera che sembra sospesa, nella quale ognuno si arrocca nelle proprie certezze, per preservare una parvenza di autorevolezza in un presente confuso, che (quasi) nessuno riesce ancora a decifrare: di fronte a questo panorama, Michele manda in scena ottantacinque look, con le modelle che avanzano per la sala sulle note di Passacaglia della vita, brano popolare di origine spagnola di cui poco altro è noto, che viene cantato come una litania in diverse lingue per tutto il corso del defilé, veicolando l’idea di un giocoso sabba nel quale apprendiste streghe bianche tentano di evocare un’energia nuova (qui il testo integrale).
Per gli appassionati di corsi e ricorsi storici, vale la pena ricordare che la canzone era già presente nella colonna sonora di “Favolacce”, film del 2020 dei gemelli D’Innocenzo, tra gli ospiti della sfilata e da sempre contrappunto cinematografico all’estetica venata di straniamento di Michele.
Una scelta, quella della canzone, di cui si è già detto molto sui social: «Ne ho cambiato le parole, è vero (il “bisogna morire” originale è diventato “bisogna gioire”, ndr), ma il senso in fondo è lo stesso», risponde il designer. «Proprio perché questo show è dedicato alla “finitudine” come consapevolezza della limitatezza terrena delle nostre vite: diventa necessario goderne appieno oggi, attraversandole senza timore. Abbiamo una sola vita, in fondo, e a me sembra che oggi di vivere ci sia un po’ paura».
E di certo Michele timori non ne ha, tuffandosi nell’universo di Valentino Garavani pescando a piene mani dal suo immenso heritage. «Ho selezionato negli archivi molti pezzi che avrebbero fatto dire alla gente “mi fa vecchio”: un’annotazione che non percepisco come un problema, mi piace tutto ciò che è démodé», spiega lui. Sulla passerella esplodono così i pois, i vestiti a balze, i broccati, le calze in pizzo, le giacche in paillettes, vestaglie in seta con le piume sulle maniche, blazer con collo a lancia cropped chiusi da fiocchi, cappelli decorati da lunghe piume, frange e passamanerie sui vestiti stampati (molti sono riferimenti filologici a degli abiti di Valentino, riportati dal profilo Instagram Insidethemood). Non è certo il “Valent-ucci” di cui i detrattori lo accusano, anche se non aiuta lo styling eccessivamente decorativista, ma è Alessandro Michele in purezza.
«È come quando ti invitano a una festa e poi si stupiscono quando ti vedono arrivare, dicendo “ma sei proprio tu?”. Se mi inviti, è strano aspettarsi che si presenti qualcun altro», ironizza in conferenza stampa. D’altronde è un diritto di ogni creativo studiare il patrimonio stilistico della maison per la quale disegna, selezionando chirurgicamente ciò che sente più affine alla propria personalità: Michele lo aveva già anticipato con la pre-collezione Avant le début, e di conseguenza risulta quasi naïf lo stupore.
A voler sottolineare le differenze con il suo precedente impiego, si nota subito che non c’è traccia in questo show dello streetwear che proliferava invece da Gucci, con sneaker, felpe e collab con Adidas probabilmente necessarie a moltiplicare i fatturati già corposi. C’è invece un’invasione di pois, sinonimo di Valentino, che appaiono maxi sui blazer o microscopici sulle piume che decorano i colli, e che sembrano manti di storni e ghiandaie.
«A me i pois non sono mai piaciuti», ammette lui. «Però Valentino ne aveva realizzati di ogni tipo e forma, mi hanno sedotto. Mi fa sorridere pensare cosa ne direbbe Davide Renne (il collaboratore di lungo corso di Michele, scomparso lo scorso anno, dieci giorni dopo la sua nomina come direttore creativo di Moschino, ndr), a cui questo pensiero è dedicato. Credo che ne sarebbe stato sorpreso, mi avrebbe detto “ma come, dopo tutti i pois che ti ho proposto e che mi hai sempre bocciato!”». Una collezione, la sua, nella quale molti pezzi sono talmente onirici da rendere difficile l’idea di immaginarli sulle strade (come ha ribadito Cathy Horyn nella sua recensione sul The Cut).
Che Michele sia il più hollywoodiano tra i grandi creatori di moda di oggi è cosa nota: in questo caso avrebbe aiutato un casting diverso. Nei paragoni con il passato, gli abiti ugualmente massimalisti di Valentino Garavani mettono piede nella realtà scendendo dall’empireo dei sogni, grazie anche alla personalità di chi li sfoggiava in passerella o nelle campagne pubblicitarie, come Marpessa – che ha pubblicato una foto su Instagram nella quale ricorda l’abito da lei indossato nel 1990 e poi la sua trasposizione nel 2024 – o anche Anjelica Huston e Marisa Berenson. Pur registrando il cambio di tempi e le rivoluzioni dell’estetica, così come la corsa collettiva delle maison che cercano di validarsi presso la GenZ, donne (e uomini) più maturi – o che appaiono tali – avrebbero potuto regalare una concretezza diversa al risultato finale.
I molteplici abiti da sera, il riverbero delle paillettes, gli abiti con le balze e gli scolli a cuore, rossi con fasce nere a infiocchettarli, potrebbero però ingolosire i compratori della couture, categoria merceologica alla quale questi abiti si avvicinano, anche se formalmente sono catalogati come ready-to-wear. E della couture ha in effetti parlato Michele anche nella conferenza, dove i giornalisti gli hanno chiesto del cambiamento delle tempistiche e delle sfilate.
Dal suo arrivo, infatti, il brand ha optato per le sfilate in co-ed due volte l’anno, mettendo insieme l’abbigliamento uomo e quello donna, e per una sola sfilata di haute couture, così come fa già Margiela o Balenciaga (il debutto della couture di Maison Valentino firmata Michele è previsto per il prossimo gennaio). «In questa Maison è normale chiedere cose che in altri luoghi apparirebbero follia, ed è mio dovere dare alle sarte il tempo necessario: d’altronde questo brand, a differenza di molti altri, ha clienti e un mercato nella couture, quindi è uno spazio da trattare con la dovuta cura».
L’intelligenza commerciale di Michele esplode nel baccanale del comparto accessori, già radicalmente rivoluzionato: dimenticati gli studs, nati quando Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri co-dirigevano il brand, il V logo appare sulle postine con i profili in pelle, oppure ricoperte di ricami; nelle tracolle effetto cocco con spesse catene dorate; nelle collane con un cuore logato; sul tacco delle décolleté lucide con maxi fiocco; sulle maxi borse in suede con boules in metallo e frange; nei turbanti in seta; sulle calze rosse che hanno una V nera tatuata.
D’altronde Michele ha sempre avuto un approccio totalizzante, capace di soddisfare i bisogni dei clienti più danarosi, così come le aspirazioni di chi, a quell’universo, può ambire solo in piccole dosi. «Sono consapevole di essere una persona che dice molto, ma qua mi sembrava ci fosse molto da dire, e sono altrettanto consapevole del fatto che il fine ultimo di una collezione, è quello di essere venduta», spiega lui.
Michele, ricordiamo, è stato l’autore del miracolo economico di Gucci, passato da tre (2015) a dieci (2022) miliardi l’anno di fatturato durante gli anni della direzione creativa del designer romano. Ovviamente, Maison Valentino vuole replicare quella felice parabola: in prima fila alla sfilata c’è François-Henri Pinault, Ceo di Kering (lo stesso conglomerato proprietario di Gucci), che a luglio dello scorso anno ha acquisito il trenta per cento della Maison da Mayhoola, società qatariota che a oggi detiene ancora la maggioranza.
Ad apparire meritevole di ulteriori riflessioni è il lavoro di Michele sugli anni Ottanta, nella stessa stagione nella quale Anthony Vaccarello, da Saint Laurent, ha mandato in scena le sontuose giacche in broccato che erano in quella decade ossessione del fondatore Yves. Irrompere nello spartito usurato che si divide tra stanchi appelli al quiet luxury e rimandi agli anni Duemila – chiunque li abbia vissuti, è dolorosamente consapevole della pericolosità di tale celebrazione – ha sicuramente il merito di smuovere le acque impantanate di un sistema chiuso in se stesso, correggendo al contempo chi, in tempi recenti, ha riassunto tutta la storia della Maison in un generico afflato verso l’eleganza.
«Oggi si è incasellato Valentino come un brand “classico”, ma nella realtà come creativo è stato un rivoluzionario», spiega Michele. «In un momento nel quale Armani, negli anni Ottanta, introdusse completi maschili anche nelle collezioni per lei, lui non abbandonò i suoi codici per vestire le donne in modo romantico. La sua genialità è stata nel tramutare questa sua eccentricità in un canone, una istituzione». Se anche Michele riuscirà in questo compito, se il suo sarà da considerare un inno alla gioia che farà scuola e proseliti, o una fuga dalla realtà, saranno solo il tempo e il mercato – l’unico il cui giudizio è rilevante per i conglomerati finanziari – a dircelo.