Si dice spesso che il progresso sia frutto della competizione, della tendenza a inseguire chi è in testa, tentando di superarlo e di far meglio di lui. Probabilmente è un ragionamento troppo semplicistico che non tiene conto di tante variabili e non può essere uniformemente applicato all’umanità intera. Parlando di sportivi, però, la metafora diventa più efficace. In una corsa, chi sa di essere quasi in testa, secondo o terzo, metterà tutto sé stesso negli ultimi metri, cercherà di dimenticare la fatica e il dolore e tenterà con ogni forza di superare chi gli sta davanti per raggiungere il gradino più alto del podio. Chi è secondo ha più fame rispetto a chi è in testa, una fame che, alla fine, può fare la differenza. È la stessa fame che pervade alcuni territori del nostro Paese, zone poco conosciute e in qualche modo secondarie che però, proprio in questi ultimi anni, grazie alla ricerca di esperienze differenti dovuta all’overtourism che affligge tante blasonate località italiane, si stanno facendo spazio e stanno acquisendo una nuova dignità.
Esempio perfetto di questa tendenza è il Monferrato Casalese, terra a metà tra la collina, a tratti impervia e ricoperta da fitta vegetazione e a tratti dolce e interamente vitata, e la Piana del Po le cui acque si confondono con quelle delle risaie allagate, dando vita a un paesaggio inconsueto e affascinante. Lo stesso Monferrato che si è svelato patrimonio Unesco grazie alla ri-scoperta degli infernot, piccole camere sotterranee scavate nella pietra viva, senza luce né aerazione, in cui storicamente venivano nascoste le bottiglie di vino più preziose, capaci di conservarsi perfettamente grazie alla temperatura e umidità costante. Il Monferrato del vino, che si esprime attraverso vitigni antichi come la Barbera, la Freisa e il Grignolino, dando vita a prodotti di qualità che per anni hanno vissuto all’ombra dei grandi vini langaroli. Fratelli minori, eterni secondi.
Ma uno di questi vitigni non può accontentarsi di occupare lo spazio libero lasciato dalla progenie del Nebbiolo, non riesce a stare nei margini, a contenersi, per via del suo carattere ribelle, capriccioso, fuori dalle righe: il Grignolino. La bacca nera più distintiva del Casalese è tornata a far parlare di sé grazie a un gruppo di vigneron che, da ormai un decennio, sono tornati a crederci e a investire il loro tempo e le loro risorse per conoscerlo e vinificarlo al meglio.
La poca fortuna di cui il Grignolino ha goduto in passato, non è però esclusivamente frutto di pregiudizi, infatti è spesso descritto come un vitigno particolarmente sensibile alle malattie, molto esigente e non sempre garantisce rese elevate. Si tratta sicuramente di una varietà sfidante e che richiede molte attenzioni, è un vitigno capriccioso, definito da Gino Veronelli come «anarchico testadura», aggettivi che fanno capire come il suo carattere possa risultare ostico e spinoso. Solo pochi vignaioli altrettanto caparbi hanno deciso, nel corso degli anni, di continuare a coltivarlo e farne il prodotto di punta della loro produzione, senza cedere alle lusinghe della Barbera o, non sia mai, dei vitigni internazionali.
Non va dimenticato che il Grignolino è una delle varietà autoctone presenti da più tempo in territorio piemontese, la prima testimonianza risale infatti al 1249, quando venne citato col nome Barbexinius negli archivi capitolari di Casale Monferrato. Fino al Novecento è stato uno dei vini più amati del Regno d’Italia, per poi essere gradualmente soppiantato da prodotti più strutturati come il Barolo o il Barbaresco. I consumatori, in cerca di sapori e profumi intensi e complessi, iniziarono a dimenticare il vino fresco e di pronta beva che era una volta il Grignolino, relegandolo al ruolo di vino della messa. E davanti a chi, timidamente, provava a suggerire di metterlo in botte, veniva riproposta l’antica massima: «Grignolino e legno non vanno d’accordo», un’affermazione dettata dall’atteggiamento ottuso del «si è sempre fatto così».
In realtà, il carattere di questa bacca nera, caratterizzata da un’acidità spinta e tannini particolarmente ingombranti, ben si sposa con l’invecchiamento in legno, capace di addomesticarne un po’ l’astringenza. Infatti, nonostante l’ipotesi più accreditata spieghi che il nome Grignolino derivi da grignole, termine piemontese con cui si indicano i vinaccioli, un’altra teoria suggerisce che il nome sia stato coniato proprio in virtù della sua tannicità, descrivendo la strana smorfia che si formava sul viso di coloro che lo avevano bevuto: un grigné, ovvero un sorriso a labbra chiuse, segno dell’allappamento dato proprio dal tannino. Inoltre, nonostante sia dotato di una struttura moderata, tanti esperimenti ben riusciti provano quanto il vitigno riesca a reggere la botte, dimostrandosi longevo e resistente.
Per perorare la causa del Grignolino, nel 2015 nasce il progetto Monferace, dall’antico nome del Monferrato aleramico. Il disciplinare recita che solo il vino risultante dalla fermentazione di Grignolino in purezza , affinato per quaranta mesi di cui almeno ventiquattro in botte, possa fregiarsi di tale nome. Un vino prodotto esclusivamente con le uve meglio esposte, raccolte a perfetta maturazione, in modo da dare vita a prodotti che possano raccontare degnamente il carattere e l’espressività del vitigno di origine. Un Grignolino d’eccellenza quindi, nato solo nelle annate migliori, quello che gli antichi abitanti del Monferrato avrebbero conservato gelosamente nei loro infernot.
Sono tredici le aziende che hanno deciso di provarsi in questa sfida, dimostrando così di credere strenuamente nel proprio territorio e nelle capacità del loro vitigno d’elezione di emergere e conquistare nuovi palati. Una delle più coraggiose è sicuramente Vicara, realtà che sorge sulle colline di Rosignano Monferrato e i cui vigneti sono distribuiti tra i comuni di Salabue, Serralunga di Crea, Ozzano, Treville e Rosignano, appunto.
Un’azienda nata nel 1992 dalla volontà di tre famiglie: Visconti, Cassinis e Ravizza, i cui nomi insieme danno vita all’acronimo Vicara. Dal 2022 è la sola famiglia Visconti che porta avanti il progetto, grazie all’interessamento dei due cugini Giuseppe ed Emanuele che hanno deciso di mettere da parte le rispettive carriere per non far morire il progetto e garantire un sicuro passaggio generazionale. Ed è proprio a Giuseppe Visconti che abbiamo chiesto un’opinione sul futuro del Grignolino.
Il proprietario di Vicara, pur riconoscendo di essere un neofita del settore, ha le idee molto chiare sulla direzione da dare alla sua azienda, nel 2023 ha infatti completato la transizione biologica, certificando i suoi 33 ettari vitati, e ha deciso di effettuare la vendemmia completamente a mano per permettere una migliore selezione delle uve e diminuire gli sprechi. Ama follemente le sue vigne “spettinate” e ama definirsi un vinicultore.
L’azienda produce ben tre etichette a base Grignolino: il “G” Grignolino del Monferrato Casalese Doc, che matura in tini d’acciaio e unisce i profumi fruttati alla freschezza e la tannicità distintive del vitigno, l’Uccelletta Monferace e il Domino. Il primo appartiene, come abbiamo visto, al progetto Monferace, e viene prodotto da uve raccolte in cima al bricco Uccelletta, una collina scoscesa esposta a sud, sud/ovest, su suolo calcareo marnoso. Il mosto, dopo la fermentazione e la macerazione a cappello sommerso, matura per ventiquattro mesi in botti di rovere austriaco da quindici ettolitri, adottate nel 2021 in quanto ritenute più dense e meno porose rispetto a quelle di rovere francese. Il risultato è un vino rosso granato, con riflessi aranciati, il cui legame con il terroir si esprime attraverso i sentori speziati e balsamici mediati dal legno, capace persino di imbrigliare i tannini, che si dimostrano educati e setosi sul palato. Domino invece è una chicca, una bolla che non ti aspetti, uno spumante Metodo Martinotti (anche lui originario del Monferrato) composto al 70 per cento da Grignolino e 30 per cento da Barbera. Un Brut Rosé fine e profumato che in bocca si rivela secco e molto, molto fresco.
Questi tre vini mettono sicuramente in luce caratteristiche molto diverse del vitigno di origine, si esprimono con sapori, abbinamenti e occasioni di consumo diversissime tra loro ma che, insieme, riassumono il pensiero di Vicara su questo vitigno ribelle. È la volontà di costruire un equilibrio tra vecchio e nuovo che spinge l’azienda a vinificare un Grignolino classico, a spingere sulla variante strutturata ma produrre anche qualcosa che possa sbaragliare le carte, come la versione spumantizzata.
Lo stesso Giuseppe racconta di come il Monferace stia trainando il Grignolino, grazie alle diverse iniziative e agli eventi dedicati che, complice il grande successo di pubblico, sono riusciti a dare il giusto risalto al Monferrato e ai suoi vini.
«Il sogno è far uscire queste denominazioni dall’ombra delle Langhe — conferma Visconti — ma soprattutto dare vita a un grande vino, che vorrei diventasse un successo enologico e non solo di pubblico».
L’avventura di Vicara e del Grignolino, nonostante sia solo agli inizi, ci dimostra quanto sia importante per un vignaiolo, come per un imprenditore, saper sognare, solo questo riesce a dare la spinta a guardare lontano, oltre le logiche del presente, ed essere fautori del progresso. Un po’ come un eterno secondo che, in volata, taglia per primo il traguardo.