La quarta e ultima frase è: quando ti dice culo, facci caso. È l’unica mia, del repertorio con cui affronto il ritorno nella città allagata mentre tutti m’invitano a desistere. È l’unica mia, ed è anche l’unico mio principio-guida: quando ti dice culo, facci caso.
Sì, tornare a Bologna è un casino, la tangenziale era già allagata e impraticabile venerdì, figuriamoci oggi dopo l’esondazione del Ravone e le ville dei ricchi allagate, su per i colli pieni di case di cura (soggetto per una commedia: i ricchi degenti sgomberati causa inondazione, con la loro brava flebo e i piedi a mollo nelle ciabatte di visone). Però.
Però ti ha detto culo: poteva succederti a trent’anni, e invece accade ora, ora che i due chilometri tra l’aeroporto e il primo punto utile in cui ti può aspettare un autista li fai quando già non sei più così scema da esser partita coi tacchi.
Poteva succederti a quaranta, quando non c’erano le mappe sul telefono e l’autista non poteva mandarti la sua posizione e ti saresti persa cento volte (ti perdi comunque un paio di volte, perché anche seguire un puntino sulla mappa è difficile, per noi che abbiamo puntato tutto sulla bellezza).
Poteva succederti a venti, quando non c’erano i trolley, ti saresti dovuta trascinare una valigia sotto la pioggia, Claudia Cardinale in sessantaquattresimo, probabilmente ti saresti seduta sul marciapiede a piangere, senonché i marciapiedi sugli svincoli che portano fuori dall’aeroporto mica ci sono, perché non è prevista l’eventualità che piova tantissimo e ci siano centinaia di macchine bloccate e una debba arrangiarsi (o sedersi sul cofano d’una macchina bloccata, sempre a piangere, sempre in sessantaquattresimo).
Poteva succederti un qualunque altro giorno, un giorno in cui non t’avessero regalato un mazzo di rose gialle, e non potessi dire all’autista che ti poteva individuare all’orizzonte, senza ombrello, caracollando, perché eri quella coi fiori in braccio. Quando ti dice culo, facci caso e ricordati di mandare un messaggio arbasiniano: grazie per le magnifiche rose, magnifiche nonché assai più utili del previsto.
Le esondazioni bolognesi sono tali e quali alla gestazione per altre (e probabilmente a qualunque altro dibattito di questo tempo sbandato, ma quello sulla gpa è il più fresco nella memoria): non sono previste posizioni non ideologiche. Se ti collochi a sinistra, è colpa del cambiamento climatico e nessuno avrebbe potuto fare niente; se ti collochi a destra, è colpa di cent’anni di malgoverno comunista.
Sono stata via due giorni, due giorni in cui ho ricevuto in pari numero foto di cassonetti che galleggiavano e messaggi finto-preoccupati di gente che non sento mai e che aveva bisogno di materiale da conversazione, «ho notizie sicure, vengono dritte da Sorcioni, a Bologna è un disastro». La terza e penultima frase del viaggio della speranza me la dice l’autista quando chiedo cosa diamine sia successo, in questi due giorni.
Le notizie del disastro sono di sabato, ma io ero partita il venerdì e già non si arrivava in aeroporto causa allagamento del sottopassaggio della tangenziale: la macchina mi aveva lasciata in stazione, al trenino per l’aeroporto che, in un tocco di velleitarismo di terza mano, in un voler essere Milano che a sua volta vuol essere Los Angeles, i bolognesi hanno chiamato «people mover» (che il dio delle parole abbia pietà di noi – oppure ci fulmini, a sua scelta).
Il trenino per l’aeroporto (scusate se non lo chiamo con quel nome da vibratore di design) è fatto di due vagoni piccoli, che viaggiano sbandando su una rotaia rialzata senza protezioni laterali: ho passato il tragitto, per fortuna breve, a pensare «ma tu dimmi se devo morire come una stronza in quest’attrazione da luna park di provincia». All’arrivo c’erano centinaia di persone in fila per accalcarsi nei due vagoni per il tragitto inverso, aeroporto-città, e ancora il disastro non era cominciato: chissà cosa poteva essere ieri (vi vedo che state pensando che sarei dovuta andare a verificare, io col mio talento per l’indagine sul campo).
Nel frattempo i torrenti avevano esondato sulle ville dei ricchi in cui andavo a copulare da giovane, dei ricchi di seconda generazione con velleità artistiche, dei ricchi ereditari che pensano d’avere talenti e vocazioni e tutte quelle cose che si convincono d’avere i molto poveri o i molto ricchi. La terza frase, quella dell’autista, riguarda i politici, ma potrebbe benissimo riguardare gli sfollati dei colli bolognesi; fa così: «Si figuri se pensano in lungo».
Che tradotto significa: che sia o meno il cambiamento climatico, comunque qualcosa devi fare per arginarlo. Che tradotto significa: mica puoi tamponare solo quando s’allaga tutto, e ogni volta dire «eh ma non era mai piovuto tanto», al terzo «non era mai piovuto tanto» in un anno e mezzo forse deve venirti il sospetto che non sei capace di prendere provvedimenti preventivi. Che tradotto significa: non è questione di destra e sinistra, è questione di impossibilità di avere consenso e prendere decisioni anche solo a medio termine nel tempo in cui l’elettorato deve metterti i like e vedere i risultati subito; la gratificazione istantanea ci mette troppo, scriveva quella quarant’anni fa, e non è mai stato vero come quarant’anni dopo.
La seconda frase che mi viene in mente mentre trascino un mazzo di rose sotto la pioggia l’ha detta Michele de Pascale, sindaco di Ravenna e candidato alle regionali che si tengono tra un mese per sostituire Stefano Bonaccini, il quale Bonaccini è andato a fare il deputato europeo portandosi dietro i suoi occhiali a goccia e le sue foto in cui guarda pensoso l’orizzonte a corredo di post in cui parlava di robe istituzionali, e lasciando in Emilia-Romagna inondazioni e polemiche.
Ho pensato molto a de Pascale in questi giorni della terza inondazione in un anno e mezzo, in questi giorni in cui, nelle conversazioni in cui almeno una delle due parti fosse emilianoromagnola, era impossibile non chiedersi: ma come si fa a votare il Pd se ogni volta si ricomincia daccapo a finire sott’acqua, ma è ovvio che “M. la governante del secolo” è la prossima pentalogia di Scurati sui trecento anni di governi nazionali e locali di Giorgia.
Ho pensato molto a una cosa che ho sentito dire a de Pascale una settimana fa, quando le inondazioni erano solo due (e la terza era come l’inquisizione spagnola: nessuno se la aspettava). Era ospite d’onore a una cena data da un suo ex compagno d’università che ne sosteneva la candidatura, ha fatto un discorso breve riuscendo a inserirsi nelle pause del solito monologo di Stefano Bonaga (una tassa locale di più lungo corso delle alluvioni). E, parlando degli allagamenti, ha detto: «Al secondo giro m’è venuto il sospetto di portare sfiga». Il gattamortismo è la più poderosa delle armi politiche (pensateci, mandate una gattamorta in Medioriente, è la volta che la risolviamo), e quell’aria un po’ vittima un po’ tenera un po’ buffa di de Pascale mi pareva potesse funzionare. Poi però ha ricominciato a piovere.
La prima frase la scrisse Edmondo Berselli nel 2009. Parlava di quando a Bologna vinse un sindaco di destra, ma avrebbe potuto parlare del governo regionale di fine 2024, o almeno io in queste settimane ci penso tantissimo e non mi sembra di quindici anni fa, semmai scritta tra quindici minuti. Fa così: «Per qualcuno la sconfitta della sinistra fu accolta come il primo giorno di vacanza dopo cinquant’anni di scuola. Così accade quando qualcuno cerca la sconfitta a tutti i costi: alla fine subentra inevitabilmente un fatalismo incerto fra il lugubre e l’ilare».