Si dice giustamente che a guardare gli alberi non si vede la foresta e che le minute contingenze della cronaca non rivelano, semmai occultano, la vera sostanza della storia. In effetti, se qualcuno volesse capire dove sta andando, anzi finendo, la politica italiana dai resoconti quotidiani dei retroscenisti e dalle analisi dei commentatori arruolati nei ranghi dell’o di qua o di là ne trarrebbe l’impressione sconsolata, ma tutto sommato ottimistica di una triste e litigiosa normalità bipolare, anziché quella dell’abnorme e miserabile unità etico-politica di schieramenti all’apparenza contrari, ma in realtà uguali nell’ostilità ai principi fondamentali della società aperta e dell’ordine politico liberal-democratico.
Alla denegata verità si può però arrivare quando questa indiscutibile e irredimibile unità di accenti e pensieri si palesa per inciampo e coincidenza e diventa improvvisamente chiaro che i presunti nemici parlano la stessa lingua e hanno perfino la stessa voce.
Lo scorso 26 settembre, durante la manifestazione per la consegna delle firme per il referendum sull’autonomia differenziata, il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo ha deplorato la decisione di vietare la manifestazione del 5 ottobre convocata a Roma da varie sigle ProPal, sostenendo che impedire lo svolgimento di una celebrazione apologetica del pogrom del 7 ottobre 2023 rappresentasse un «momento repressivo» di una «opinione diversa dal punto di vista politico», non giustificata da ragioni di ordine pubblico.
È lo stesso Pagliarulo che di fronte a ogni carnevalata in camicia nera e a ogni braccio teso per il funerale di un camerata, non all’apologia della Notte dei Cristalli o di Auschwitz, diventa un implacabile Scelba della Resistenza, ma davanti all’antagonismo from the river to the sea che infesta le piazze antifasciste, tra le invocazioni del fratello Nasrallah, si scopre incline a difendere, non al prezzo della vita, ma del ridicolo, il diritto di esprimere idee «profondamente sbagliate», come pure concede con trattenuta aggettivazione, tirando un colpo al cerchio dell’album di famiglia comunista e uno alla botte della rispettabilità democratica.
Pochi giorni dopo l’anchorman dell’informazione Mediaset, Nicola Porro, ha recensito sul Giornale il volume “Cara Giorgia, e se avesse ragione la Russia?” di Franco Battaglia, un ex docente universitario di Chimica convertito alla storiografia encomiastica del Russkiy Mir – una sorta di Luciano Canfora delle scienze dure e su sfondo bruno – lodandone la coerenza intellettuale e la prosa agile e piacevole nell’esporre «un punto di vista a tratti diverso da chi scrive», cioè da Porro stesso.
Sarebbe bello scoprire in quali “tratti” la diversità davvero si palesi, essendo anche il vicedirettore del Giornale, come tutti i realisti neomelodici di scuola berlusconiana, un orfano del cosiddetto spirito di Pratica di Mare, dove non si celebrò affatto, come vuole la vulgata, la fine della Guerra Fredda, ma l’inizio dell’illusione, presto tramontata, di un ordine mondiale ed europeo incardinato sulla benignità di uno stato canaglia e lubrificato da transazioni energetiche di favore.
Ma al di là di questi dettagli, la cosa eloquente è che un libro di propaganda da filiale italiana di Russia Today – con tanto di entusiastica presentazione dell’Ambasciatore di Mosca Alexey Paramonov – viene presentato come un manifesto di verve intellettuale e di salutare pensiero-contro da parte di un giornalista che, al pari di Pagliarulo, si guarderebbe bene dall’ostentare la stessa passione libertaria per il diritto alla bestialità del nemico ideologico (o presunto tale), in nome del pluralismo.
Pagliarulo e Porro sembrano gli estremi opposti di un bipolarismo inconciliabile, ma nel loro volterrianesimo della menzogna ne sono anche il più autentico e purtroppo inevitabile punto di contatto. Sono due alberelli che dicono tutto della foresta politico-giornalistica italiana, senza senso del tragico e della verità, né della propria miseria.