Il primo era stato Sultan Al Jaber, presidente della precedente Cop di Dubai, che per raggiungere l’accordo finale aveva convocato il “Majlis”, l’assemblea della tradizione araba. A Baku, la presidenza azera della ventinovesima conferenza Onu sul clima ha invece riunito la “Qurultay”, il concilio militare dell’aristocrazia medievale dei territori caucasici.
Si attendono ora le conseguenze della plenaria che ha riunito i Paesi firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni unite sul cambiamento climatico (Unfccc). Da programma, la Cop29 dovrebbe concludersi oggi, venerdì 22 novembre, ma già dai primi giorni le negoziazioni sono andate avanti molto lentamente.
Il mandato principale di questa conferenza, ribattezzata non a caso «Cop della finanza», è un’intesa sulle risorse economiche per l’azione climatica dei Paesi in via di sviluppo. Il benchmark da oltrepassare è del 2009: alla Cop15 di Copenhagen i Paesi occidentali avevano promesso cento miliardi di dollari l’anno, un traguardo mai raggiunto e ormai in scadenza. A quindici anni di distanza, in Azerbaijan si sta negoziando per un nuovo obiettivo finanziario globale (New collective quantified goal, Ncqg): quanti soldi versare, a che condizioni e da parte di chi.
Per raggiungere l’accordo si procede per bozze di testo, documenti frutto di discussioni tra le parti che vengono riesaminate fino a quando tutte le delegazioni concordano con ogni singola parola scritta. La prima bozza Ncqg pubblicata dalla presidenza è arrivata giovedì 21 novembre dopo una notte di discussioni.
Dieci pagine, poche novità rispetto al dibattito degli ultimi mesi e due opzioni su cui continuare a negoziare. «La prima alternativa riflette la posizione dei Paesi in via di sviluppo che chiedono almeno un trilione di dollari all’anno mobilitati dalla finanza pubblica; la seconda, invece, definisce quella dei Paesi sviluppati che propongono di raggiungere entro il 2035 un totale di almeno un trilione di dollari considerando però tutti i tipi di flussi finanziari», spiega Eleonora Cogo, esperta senior di finanza internazionale di Ecco, centro studi italiano sul clima.
La somma da erogare è fin dall’inizio del negoziato uno dei nodi più intricati da sciogliere. In conferenza stampa, il capo delegazione del gruppo dei Paesi africani, Ali Mohamed, ha detto che non è sicuro che il G7 e altre Nazioni sviluppate abbiano analizzato i numeri prima di Cop29. E poi ha ribadito che la loro posizione è sempre stata chiara: «Dal 2019 chiediamo 1,3 mila miliardi di dollari all’anno, una cifra adatta alla gravità della crisi climatica».
L’Unione europea – che come ha dichiarato il suo commissario per il Clima, Wopke Hoekstra, vuole mantenere la leadership globale sul clima – sembra patteggiare per una cifra pari a duecento miliardi di dollari all’anno. Ancora non è chiaro, però, se si tratta di sola finanza pubblica o del totale dei flussi e su che periodo di tempo.
Un’indicazione sulla somma necessaria arriva da un’analisi commissionata dalla presidenza azera a un gruppo di esperti sul tema: per il clima, i Paesi in via di sviluppo avrebbero bisogno di mille miliardi di dollari ogni anno entro il 2030, e poi di 1,3 mila miliardi entro il 2035. Di questo trilione, circa cinquecento miliardi dovrebbero provenire da finanza pubblica, i restanti miliardi sarebbero mobilitati dalla finanza privata e dalle banche multilaterali di sviluppo.
Un secondo nodo da sciogliere riguarda i contributori, cioè quali Stati dovranno erogare i soldi. Cina e India in questo senso sono osservati speciali, ma essendo formalmente nella categoria delle Nazioni emergenti non hanno alcun obbligo. Infine, c’è un terzo punto di frattura tra le parti: la qualità dei finanziamenti. Molti Paesi vulnerabili necessitano di erogazioni a fondo perduto per evitare che queste risorse per il clima aggravino i loro debito.