Quanto sono importanti le esportazioni per l’Italia? Oggi, in tempi di dazi già decisi e soprattutto di dazi minacciati, questi flussi commerciali si confermano strategici. Secondo i dati dell’Unece (Economic commission for Europe), nel 2023 il valore delle esportazioni italiane ha raggiunto il 35,1 per cento del Pil, una quota inferiore a quella della Germania (43,8 per cento) ma superiore alla Francia (34,3 per cento). Un risultato che testimonia una crescita significativa: 6,5 punti percentuali in più rispetto a dieci anni prima.
Ancora più determinante è l’impatto dell’attivo nel saldo commerciale sulla crescita economica, un risultato che l’Italia ha quasi sempre raggiunto negli ultimi anni. Nel 2023, ad esempio, il saldo positivo ha contribuito a oltre la metà dell’anemico aumento del Pil, pari allo 0,4 per cento su un totale dello 0,7 per cento. Storicamente, questo contributo è stato tanto più rilevante quanto più contenuta era la crescita complessiva, rappresentando una sorta di zattera di salvataggio per l’economia italiana.
Tuttavia, nonostante se ne parli meno, l’export non è importante solo per i bilanci economici, ma anche per i lavoratori, in particolare quelli impiegati nelle aziende che operano maggiormente sui mercati esteri. Tra queste, un ruolo cruciale è svolto dalle multinazionali, la cui presenza in un territorio rappresenta, in un certo senso, una forma indiretta di esportazione. La loro attività testimonia che l’Italia, o almeno quella specifica area, è riuscita a «vendere» il proprio know-how e le capacità produttive alle realtà straniere.
I dati Istat evidenziano come il peso delle multinazionali sia cresciuto costantemente negli ultimi vent’anni: se nel 2005 i loro dipendenti rappresentavano il sette per cento del totale nazionale, nel 2022 questa quota è salita al 9,7 per cento, in un contesto di aumento dei lavoratori. Ciò significa che il numero di impiegati nelle multinazionali è aumentato del 57,8 per cento. Significativo è stato anche l’incremento del valore aggiunto prodotto da queste aziende, che nello stesso periodo è passato dal 10,9 per cento al 17,4 per cento del totale generato dal sistema imprenditoriale italiano. Ma ancora più rilevante è stato il balzo delle esportazioni attribuibili alle multinazionali estere presenti in Italia: se quasi vent’anni fa contribuivano al 22,3 per cento delle vendite all’estero, nel 2022 questa quota è salita al 35,1 per cento.
La ragione è piuttosto evidente: le multinazionali estere hanno sempre investito in ricerca e sviluppo più delle altre aziende. La quota di ricerca e sviluppo privata in Italia attribuibile a queste imprese è stata costantemente superiore alla loro porzione di valore aggiunto e, a partire dal 2017, ha registrato un notevole incremento, passando dal 22,4 per cento al 37,6 per cento.
Grazie alla capacità di realizzare prodotti e servizi più innovativi e competitivi, le multinazionali, che piaccia o no, si sono affermate come una componente imprescindibile del tessuto produttivo italiano e, soprattutto, del nostro commercio estero.
Un dato fondamentale riguarda i salari: queste imprese, tra le più orientate all’export, sono anche quelle che offrono le retribuzioni migliori. Nel 2022 il costo del lavoro medio per addetto nelle aziende a controllo estero era di cinquantasettemila e cinquecento euro, contro i quarantaquattromila e cinquecento euro delle aziende italiane. Il divario è più marcato nel settore dei servizi, anche se il picco del costo del lavoro si registra nelle imprese industriali a controllo straniero. Questo gap riflette quello presente nel valore aggiunto e negli investimenti in ricerca e sviluppo, non a caso.
Le imprese a controllo estero, solitamente multinazionali, tendono ad avere un costo del lavoro più elevato, offrendo salari più alti soprattutto nei settori dove gli stipendi delle aziende italiane risultano più bassi. È il caso dell’industria manifatturiera, come quella alimentare e dell’abbigliamento, oppure dei comparti dell’alloggio e della ristorazione, del commercio e delle attività immobiliari. In generale, ciò avviene in quegli ambiti che strutturalmente hanno un minore valore aggiunto e in cui le aziende sono di piccole dimensioni. Al contrario, le aziende italiane registrano salari più alti nei settori maggiormente produttivi, come la farmaceutica, la chimica e l’Ict (tecnologie dell’informazione e della comunicazione).
Gli investimenti stranieri giocano un ruolo cruciale intervenendo dove c’è più bisogno, rendendo possibili e competitive le esportazioni di prodotti chiave del settore produttivo italiano e contribuendo ad alzare gli stupendi nei settori dove sono tradizionalmente più bassi. Export e salari più alti vanno a braccetto, e il legame tra i due è rappresentato dalla presenza delle multinazionali, che scelgono di investire in Italia, sia attraverso insediamenti sia rilevando imprese già esistenti. Questo significa che gli istinti trumpiani che potrebbero colpire duramente il commercio globale e, nel caso italiano, causare danni triplicati.
Non solo limiterebbero una delle poche fonti di crescita su cui l’Italia può spesso contare, ma renderebbero il Paese meno attrattivo per le multinazionali, che sfruttano il know-how locale per esportare a livello globale. Alcune di queste aziende potrebbero trovare più conveniente stabilirsi direttamente, ad esempio, negli Stati Uniti, per aggirare i nuovi dazi. Il colpo più grave, però, riguarderebbe proprio quelle imprese che garantiscono i salari più alti.
Per un Paese come l’Italia, caratterizzato da una domanda interna in declino per ragioni economiche e demografiche, tali politiche sarebbero devastanti. Gli estimatori di Donald Trump farebbero bene a rifletterci. Non esisterebbero scorciatoie, soprattutto considerando un mercato dei capitali privati e, possiamo aggiungere, dalle competenze così limitate, che non consentirebbero di sostenere gli investimenti necessari per aumentare la competitività delle imprese e compensare i costi imposti dai dazi.
Se le promesse, o meglio, le minacce di Donald Trump dovessero concretizzarsi, rappresenterebbero l’ennesima conferma della validità della «predica nel deserto» di Mario Draghi, che da tempo sollecita, per il medio e lungo periodo, un incremento di produttività e innovazione in Europa, condizioni essenziali per realizzare prodotti così indispensabili da superare le barriere commerciali. Nel breve periodo, però, queste promesse e minacce si tradurrebbero in una tragedia per noi.