Solo New York, in autunno, può offrire un sole così bello. La luce si riflette sui vetri dei palazzi e illumina le strade mentre cammino cercando un’edicola per prenotare una copia del giornale del giorno dopo le elezioni: voglio portare a casa un ricordo di questo passaggio storico per la democrazia americana. Mancano poche ore all’apertura dei seggi. Ho chiesto alla portineria della casa che mi ospita nell’Upper West Side, ma nessuno sapeva indicarmi dove trovare un’edicola che facesse prenotazioni.
Qui sembra che quasi tutti leggano le notizie online e i pochi rimasti fedeli alla carta siano abbonati e ricevano il giornale a casa. Io vorrei una copia del Washington Post, ma evidentemente non è molto diffuso in questo quartiere. Nei pressi della Columbia University trovo finalmente un’edicola che accetta di riservarmi in anticipo una copia del New York Times del 6 novembre. Continuo a cercare anche il Washington Post.
Un amico che insegna alla Columbia mi indirizza a un negozio di alimentari, ma è un consiglio inutile: non vendono più giornali. Alla fine, sulla centoquindicesima strada, un edicolante mi promette che lascerà un messaggio al collega del turno di mercoledì mattina, chiedendogli di riservarmi una copia. Non vuole soldi in anticipo, ma quella è la mia unica speranza per riportare in Italia la prima pagina, come avevo fatto tanti anni fa dopo la vittoria di Obama.
Quel ricordo risale a sedici anni fa, il mio ricordo più nitido della macchina elettorale americana. Era il 2008 e avevo seguito un mese di campagna in giro per gli Stati Uniti. All’alba del giorno dopo l’election day mi trovavo a Washington. Feci esattamente ciò che sto facendo ora: cercare una copia del quotidiano più noto della capitale. Era tutto esaurito. Così bussai alla porta della redazione del Washington Post che, nel frattempo, aveva ristampato la straordinaria edizione con il titolo di apertura: “Obama makes history”. Ogni volta che la guardo, mi torna in mente il receptionist afroamericano dell’hotel in cui alloggiavo, che trovai in lacrime al mio ritorno. Gli domandai perché stesse piangendo. Mi abbracciò forte e mi disse: «Tu non puoi capire». Ci facemmo una foto con la prima pagina del Washington Post in mano. La conservo gelosamente.
Altre prime pagine della mia carriera sono un corridoio di emozioni e ricordi. Ero alla proclamazione di Papa Ratzinger e conservo la prima pagina dell’Osservatore Romano. Ero sul campo durante la Seconda guerra del Golfo, per settantadue ore di diretta video. Ricordo i volti dei cinquecento colleghi arrivati al Centcom da tutto il mondo e quanto sia pungente il freddo del deserto di notte. Poi c’è la prima pagina del Times sui funerali della Regina Elisabetta e quel giorno a Londra ho dovuto smorzare l’entusiasmo degli ospiti in uno studio tv a Istanbul, che speravano in una pacificazione tra i Windsor.
E più a est, ricordo nitidamente l’incontro tra Kim Jong-un e Donald Trump sull’isola di Sentosa: la prima pagina di quel pezzo di storia che porto con me è dello Straits Times. Ma la notizia più preziosa che ho vissuto è il premio Nobel a Orhan Pamuk. Tra i ricordi più drammatici, invece, c’è la lite di Recep Tayyip Erdoğan con Shimon Peres al World Economic Forum di Davos: Erdoğan accusò Peres di crimini contro i palestinesi.
Poi c’è la prima pagina dell’omicidio di Alexei Navalny, tragedia appresa durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, lo scorso febbraio, alla presenza della moglie del dissidente, Yulia, che stava intervenendo sul palco. Nella stessa occasione, tra i relatori, c’era un giovane senatore repubblicano, J.D. Vance, che tenne un discorso durissimo sull’Europa e la sua capacità di difesa. Quando Vance è stato scelto come candidato vicepresidente con Trump, sono andata a riascoltare quel panel. Mi sono ricordata che alla stessa conferenza c’era anche Kamala Harris, già vicepresidente democratica di Joe Biden.
Mi chiedo ora cosa ricorderò quando guarderò la prima pagina del New York Times del 6 novembre 2024. Probabilmente la mente tornerà al mese di aprile, quando seguii a Washington una conferenza del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti. Più della conferenza, mi è rimasto impresso il Caffè Milano, ritrovo di potenti: l’articolo di Maurizio Molinari racconta magistralmente l’atmosfera di sguardi incrociati tra lobbisti, politici, giornalisti e spie. Una sera sentivo il vento soffiare in direzione Repubblicana. Ho parlato con persone propense al Partito Democratico, che eludevano una domanda specifica su Biden. Un segnale.
Così ho deciso di chiamare un conoscente trasferitosi da poco in Michigan. Mi disse: «Chi legge i giornali pensa che vincerà Harris, ma se vivi qui ti convincerai che il quarantasettesimo presidente sarà Trump». Mancavano più di due mesi alle elezioni e i sondaggi non analizzavano ancora il voto dei musulmani americani di origine araba, il cui risentimento verso i Democratici è cresciuto al punto da contribuire alla vittoria di Trump. Un paradosso: pur di punire i Democratici, hanno votato per un presidente che, nella sua precedente amministrazione, aveva imposto il divieto di ingresso ai cittadini di alcuni Paesi dove vivono i loro parenti.
Mi è bastata la certezza con cui le persone parlavano di politica estera o immigrazione. Spesso ignoravano le basi della geopolitica, ma ci credevano fermamente. Tornata in Italia, ho riordinato il materiale raccolto e ho iniziato a riflettere. Mi sono resa conto che i valori fondamentali, come economia, sicurezza, libertà civili e rispetto per la democrazia, erano sì importanti per molti, ma stavolta il sentimento aveva un peso maggiore. Un’immagine virale, il prezzo di un gallone di latte al supermercato sembravano avere più rilevanza del prodotto interno lordo o della disoccupazione. Dopo il Covid, come ha scritto Gianni Riotta il giorno dopo il voto, sembra dissolta la politica delle identità. Non si pensa più a lungo termine, non c’è pazienza. È un fenomeno globale.
Questa elezione di Trump non fa eccezione. Siamo in una società in cui l’emozione determina la scelta di voto, ma comprendere a fondo quelle emozioni richiede tempo e strumenti che stiamo perdendo, come le relazioni autentiche di una volta. Faticare a trovare una copia cartacea del giornale mi ha fatto ricordare la difficoltà nel mandare una cartolina. Oggi trovare carta da lettere o francobolli è un’impresa anche in Italia. In Libano, persino sotto le bombe, è stato più semplice: c’era un negozio con delle cartoline e un ufficio postale, e tutti sapevano dove si trovassero.
Il risultato di queste elezioni ci fa capire che saremo accompagnati nel futuro da figure come Peter Thiel ed Elon Musk. La tecnologia sempre più invasiva riduce lo spazio per i sentimenti profondi. I ricordi comuni sono importanti, e altrettanto lo è lo sforzo per costruirli. L’umanità sembra aver lasciato la propria anima in maggese, in attesa di una consapevolezza che ignora. La tecnologia ha portato progresso e prosperità, ma ha anche impoverito le nostre relazioni, al punto che ci rendiamo conto di capire sempre meno i nostri figli adolescenti, preferendo mandare loro un messaggio invece di ascoltarli davvero.
I personaggi della Silicon Valley dichiarano progetti di rinnovamento, ma anche con tutte le buone intenzioni, è chiaro che contribuiranno a robotizzare gli esseri umani. Le nostre anime non riescono a tenere il passo con lo sviluppo tecnologico: abbiamo bisogno di fermarci, pensare e sentirci amati. Le ultime elezioni americane sono uno specchio di questi tempi e dovremmo farne tesoro. L’Europa aspetta ancora un leader del calibro di Konrad Adenauer, capace di unire, o di Winston Churchill, capace di decidere.