Uno dei falsi miti sull’energia più duri a morire è quello dell’esaurimento imminente del petrolio (definito «un dono di Dio» dal presidente azero, Ilham Aliyev, durante la Cop29 di Baku). Secondo queste ricostruzioni, nel giro di qualche decennio – trentanove anni appena, stando ad alcuni post che circolano sul social network Threads – nel sottosuolo della Terra non ci sarà più greggio da estrarre e di conseguenza la civiltà umana, rimasta senza la sua fonte di energia più importante, finirà per collassare.
Il racconto punta a risvegliare le coscienze in modo da far nascere un movimento collettivo per la rapida sostituzione del petrolio con delle alternative rinnovabili, ma come tutte le narrazioni false fa più male che bene. Ci sono degli ottimi motivi per distaccarci – gradualmente e razionalmente – dal petrolio e dagli altri combustibili fossili, che sono stati uno straordinario motore di progresso ma che sono anche la causa principale del riscaldamento globale che minaccia quanto abbiamo costruito finora; l’esauribilità dei giacimenti non è tra questi motivi.
Non è vero che il petrolio sta finendo, e soprattutto non è vero che finirà in tempi a noi vicini e prevedibili. È una falsa credenza che circola peraltro da parecchio: se la profezia fosse stata corretta, a quest’ora di greggio non sarebbe dovuta restarne neanche una goccia. Come scrive il professor Vaclav Smil in “Come funziona davvero il mondo”, «le prime previsioni di un imminente picco di produzione del petrolio risalgono agli anni Venti, ma hanno raggiunto nuove vette di terrorismo psicologico negli anni Novanta e nel primo decennio del XXI secolo.
Alcuni membri particolarmente convinti della setta peak oil ritenevano che il calo della produzione di petrolio non avrebbe portato soltanto al collasso delle economie moderne, ma avrebbe trascinato l’umanità a uno stile di vita ben al di sotto dei livelli preindustriali, tornando indietro fino a quello dei cacciatori-raccoglitori del paleolitico». Oggi in realtà si parla ancora – ma con contezza – di “picco del petrolio”, però con una differenza sostanziale rispetto a ieri: non ci si riferisce cioè al picco dell’offerta ma a quello della domanda, erosa dall’elettrificazione dei consumi.
Chi cerca oggigiorno di calcolare quanto petrolio ci resta e per quanto tempo, commette di solito due errori. Il primo è che stabilisce arbitrariamente i livelli della domanda di barili sul lungo termine, un dato impossibile da conoscere. Il secondo errore è che fa coincidere le riserve con l’interezza dei depositi, quando invece ne rappresentano solo una frazione.
Le riserve, infatti, sono i giacimenti economicamente vantaggiosi da sfruttare. Per indicare tutti quei depositi che oggi non si riesce a mettere a profitto – perché sono difficili da raggiungere, ad esempio – si usa il termine “risorse”: se il prezzo del petrolio aumenta, oppure se si sviluppano tecniche estrattive migliori, le risorse diventano riserve. «L’umanità», racconta il giornalista Ed Conway in “La materia del mondo”, «ha escogitato modi sempre più ingegnosi per estrarre gli idrocarburi, dalle profondità marine, dalle zone più remote del pianeta, dalle dure rocce di shale o da giacimenti come il Ghawar», il grande campo petrolifero saudita.
Le analisi di Rystad energy per il 2024 dicono che le riserve petrolifere recuperabili globali ammontano a 1536 miliardi di barili. L’anno prima erano di più, 1624 miliardi, e dal 2019 a oggi si sono complessivamente “rimpicciolite” di settecento miliardi di barili a causa del calo delle esplorazioni: si investe di meno nella ricerca di giacimenti perché gli azionisti delle compagnie energetiche hanno paura di non rientrare delle spese, vista la tendenza all’elettrificazione e alla decarbonizzazione.
Dunque, ricapitolando: calcolare la data della “fine del petrolio” dividendo le riserve per la domanda di barili non ha senso perché né la domanda né le riserve sono statiche, ma variano a seconda del contesto internazionale e della scoperta di nuovi depositi. Il peak, quando lo si raggiungerà, sarà dal lato della domanda e non dell’offerta perché di greggio ce n’è in abbondanza ovunque. Basti pensare al caso recente della Guyana, uno degli stati più poveri del Sudamerica trasformatosi di colpo in una potenza petrolifera emergente.
A proposito di variabilità della domanda, l’Agenzia internazionale dell’energia dice che quest’anno la domanda petrolifera mondiale crescerà di circa novecentomila barili al giorno, meno di quanto stimato in precedenza, a causa della fiacchezza economica della Cina, la prima Nazione importatrice. Inoltre, dal 2025 si verificherà una situazione di forte surplus dell’offerta riconducibile soprattutto ai paesi produttori che non fanno parte del cartello Opec+, come gli Stati Uniti, il Canada, il Brasile e la già citata Guyana. Che già oggi, comunque, il mercato del greggio sia particolarmente “rilassato” lo si nota dai prezzi: nonostante le tensioni tra Israele e Iran, il Brent (il riferimento internazionale) sta poco sopra i settanta dollari al barile.
L’Agenzia internazionale dell’energia, nel suo rapporto “Oil 2024”, dice altre due cose interessanti: cioè che a trainare la domanda di greggio saranno sempre più i derivati petrolchimici, e che le raffinerie dovranno riorganizzarsi per gestire la minore richiesta di benzina e i maggiori consumi di jet fuel per gli aerei. L’era del petrolio non sta terminando, insomma, ma sta cambiando.