Le elezioni anticipate in Germania, fissate per il 23 febbraio 2025, promettono un bagno di sangue per la Spd (Partito socialdemocratico), che nell’ultimo sondaggio Insa crolla a un 15,5 per cento, rispetto al 26,9 per cento ottenuto nel 2021. Ancora più drastico è il rischio di esclusione dal Bundestag dei liberali del Fdp (Partito liberale democratico), fermo al 4,5 per cento, e dunque sotto la soglia di sbarramento, dopo l’11,97 del 2021. Anche i Verdi risulterebbero in forte calo, con una perdita di cinque punti percentuali. Complessivamente, il sondaggio indica che i partiti della coalizione perderanno un catastrofico 23,1 per cento, il trentotto per cento dei voti ottenuti nel 2021.
A guadagnare i voti persi dal governo si prevede che saranno la Cdu (Unione Cristiano-Democratica), stimata al trentadue per cento e, purtroppo, l’estrema destra della Afd (Alternative für Deutschland), data al diciotto per cento.
Al di là dei sondaggi e delle difficili previsioni sulla possibile maggioranza di governo che emergerà dalle elezioni del 2025 (forse l’unica possibilità aritmetica sarà una Große Koalition tra Cdu e Spd, anche se nelle condizioni attuali sarà difficile da realizzare), è importante capire le ragioni di fondo del fallimento del governo di Olaf Scholz. Ragioni che dovrebbero essere attentamente valutate dal Pd di Elly Schlein, ma che non lo saranno.
In buona sostanza, queste ragioni riguardano l’essenza di un partito progressista: enucleare e introdurre grandi riforme strutturali, e non limitarsi a demagogici appelli alla giustizia sociale, alla difesa dei ceti più deboli e al finanziamento della sanità. Questo approccio, il riformismo strutturale, è ciò che è totalmente mancato nell’azione di governo di Olaf Scholz.
Si potrebbe dire, ironicamente ma senza discostarsi molto dalla realtà, che le mancanze dell’esercizio di governo di Scholz sono racchiuse nel soprannome coniato dai media avversari pochi mesi dopo il suo insediamento: «Scholzen». Un neologismo che gioca sul suo cognome e significa “temporeggiare”, ossia rimandare costantemente le decisioni cruciali.
Questa è stata la grande colpa di Olaf Scholz, che non ha saputo – né voluto – ripetere l’exploit riformista del suo predecessore socialdemocratico, Gerhard Schröder. Nei primi anni Duemila, Schröder inaugurò una stagione di profonde riforme, conosciuta come «Agenda 2010», una radicale riforma del mercato del lavoro, concordata con i sindacati e l’introduzione del minijob, una riforma delle pensioni, della formazione professionale, della sanità, dell’organizzazione dello Stato, degli investimenti pubblici e persino delle autonomie locali.
Interessante è che il trauma di quelle riforme costò poi alla Spd e al cancelliere, finito poi ignominiosamente a lavorare per la Russia di Putin, una dura sconfitta elettorale contro la Cdu di Angela Merkel, ma ha garantito alla Germania oltre vent’anni di crescita stabile, di cui ha beneficiato proprio la Kanzlerin.
Olaf Scholz, invece, non ha realizzato alcuna riforma strutturale, pur trovandosi a gestire il fallimento del Modell Deutschland ereditato da Angela Merkel. Un modello basato su energia a bassissimo costo, importata dalla Russia di Vladimir Putin; la chiusura delle centrali nucleari decisa dopo il disastro di Fukushima del 2011; grandi investimenti nei gasdotti Nord Stream uno e due; un’industria esportatrice fortemente dipendente dal mercato cinese; un drammatico calo della spesa per investimenti strutturali; e il via libera alla politica di apertura ai migranti con il suo famoso e poco ponderato Wir schaffen das («ce la possiamo fare»), che ha portato a forti tensioni sociali ora cavalcate dall’estrema destra di Afd.
Il pareggio di bilancio, addirittura inserito in Costituzione nel 2009, ha imposto ulteriori restrizioni alla spesa pubblica, restrizioni che il governo Scholz ha tentato di aggirare con alcuni artifici contabili, successivamente bocciati dalla Corte Federale di Karlsruhe. Questo ha portato a un aggravio di sessanta miliardi sul debito, riducendo ulteriormente i margini di manovra dell’esecutivo. Dunque, il Cancelliere socialdemocratico non ha fatto per introdurre riforme che attenuassero le conseguenze del drammatico incremento del costo dell’energia, seguito all’interruzione delle importazioni dalla Russia e alla chiusura del flusso di metano da Nord Stream uno e due.
Non ha intrapreso iniziative per fare fronte al calo radicale delle esportazioni tedesche verso il mercato cinese, in particolare per il settore automobilistico. E, soprattutto, non lanciato un ambizioso piano di investimenti strutturali in stile rooseveltiano, indispensabile per risollevare un paese dove molte cose ormai non funzionano e che rischia di assomigliare sempre più alla Grecia. L’unico grande merito che gli va riconosciuto è che il suo governo è quello che più ha speso in Europa per finanziare l’Ucraina aggredita dalla Russia.
Dunque, una completa assenza di energia riformatrice, giustificata da due fattori principali, entrambi legati alla natura della coalizione Semaforo (il rosso della Spd, il giallo dei liberali e il verde dei Grünen). Gli investimenti in nuove centrali nucleari per ovviare ai costi dell’importazione di metano a caro prezzo, non più disponibili dalla Russia, sono stati bloccati dai Verdi. Ma il freno più grande alle necessarie riforme è stato imposto dall’assoluta rigidità di bilancio imposta dal ministro delle Finanze liberale Christian Lindner. Leader dell’Fdp e rigoroso seguace delle teorie economiche dell’Ordoliberalismo, Lindner considera il pareggio di bilancio un principio intoccabile e ritiene inammissibile finanziare a debito le riforme strutturali.
Di fatto, Christian Lindner potrebbe essere definito un oppositore radicale di Mario Draghi e della sua dottrina del «debito buono». Quel Mario Draghi che non a caso è stato chiamato da Ursula von der Leyen a delineare un grande progetto riformista per l’Europa, con l’obiettivo di recuperare e rafforzare la competitività europea.
Il fatto è che la complessa proposta dell’ex premier italiano si condensa poi in un progetto di investimenti europei per ottocento miliardi di euro l’anno, in larga parte da reperire – come si è fatto per riparare i danni del Covid – attraverso un maxi-debito europeo, attingendo al risparmio privato. Ma questa prospettiva, questa prospettiva di un nuovo debito comune è vista come un anatema da Christian Lindner, che per di più ha spinto la Germania a definire nuove regole del Patto di Stabilità, ancora una volta troppo restrittive sul fronte dell’indebitamento e soffocanti per l’economia europea.
In più, in un quadro che vede la Germania, ex «locomotiva d’Europa», indebolita da un calo del 4,6 per cento della produzione industriale, si aggiunge l’elezione di Donald Trump, che preannuncia la possibilità di nuovi dazi alle esportazioni europee e tedesche. Da qui, l’implosione del governo tedesco, le elezioni anticipate e un futuro incerto di una Germania non riformata, che coinvolge tutta l’Europa.