Momento d’HorecaSolo una filiera efficiente può sfruttare la crescita dei consumi fuori casa degli italiani

In “I turismi visti dall’ultimo miglio” (DeriveApprodi), Aldo Bonomi e Albino Gusmeroli raccontano il successo del settore dell’Hotellerie-Restaurant-Cafè e il suo ruolo chiave nei processi di rigenerazione urbana

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Negli ultimi venticinque anni l’evoluzione della filiera delle bevande è stata legata in prevalenza all’espansione del settore Horeca, sia nella componente dell’ospitalità, sia in quella dei pubblici esercizi di somministrazione. Basti pensare, per limitarci alla dinamica “fuori casa”, che il valore del mercato è cresciuto tra il 2000 e il 2019 del settantadue per cento (Fipe 2023) a valori correnti, molto più di quanto registrato nel mercato dei consumi alimentari “in casa” (più trentacinque per cento). 

Nel 2019, anno pre-pandemico, l’incidenza dei consumi fuori casa era pari al trentaquattro per cento, poi scesa al ventiquattro per cento nel 2020 e risalita al trentuno per cento nel 2022, per un valore di ottantadue miliardi di euro. L’espansione del mercato ha riguardato un po’ tutto il paese, con punti di concentrazione più significativi nei centri urbani medi e grandi e nelle località turistiche che hanno beneficiato dell’aumento dei flussi turistici, in particolare di origine straniera. 

Al di là del crescente valore economico del settore, e proprio nel periodo critico della pandemia, è emerso con forza il valore collettivo riconosciuto al mondo dei pubblici esercizi in quanto spazi centrali di promozione della socialità, della coesione sociale, del presidio urbano di prossimità, dunque parte dell’infrastruttura della vita quotidiana legata a temi fondamentali come il cibo, la socialità e la salute. 

I pubblici esercizi oggi si collocano a cavallo tra mutamenti della composizione sociale e le trasformazioni economiche che stanno ristrutturando le economie e i territori, profilandosi non solo come erogatore di servizi fondamentali, ma come strumento di rigenerazione urbana e territoriale, di gestione razionale delle risorse, come fattore che definisce l’identità e l’attrattività dei luoghi e come attività capaci di rispondere a molteplici esigenze di carattere economico, sociale e culturale. 

In tal senso, il mondo dei pubblici esercizi non rappresenta solo la comunità operosa dei tanti imprenditori, ma fa anche parte di quella comunità allargata che lavora nella prossimità dentro i cambiamenti sociali. In questo senso i consumi fuori casa degli italiani non possono più essere annoverati tra i consumi superflui (come pure confermato nella ricerca Censis-Italgrob del 2022), benché ovviamente dettati da comportamenti di spesa legati alla disponibilità economica, che riflette in parte la tendenza alla polarizzazione dei redditi in atto da tempo, in parte una precisa strategia di consumo che privilegia il risparmio del servizio di somministrazione quotidiano, optando invece per la ricerca di esperienza e di gratificazione in occasioni selezionate (si esce di meno ma con più qualità). 

Resta inteso che a muovere il mercato è sempre più la soggettività del consumatore, la sua logica combinatoria casa/fuori casa, con diverse modalità di fuori casa a seconda delle occasioni, delle preferenze e delle propensioni orientate alla soddisfazione, al benessere, alla distintività. Come detto per il mercato fuori casa un volano importante è costituito dal turismo, in particolare quello estero che nel periodo a ridosso della pandemia aveva raggiunto una quota pari al dieci per cento del totale, poi scesa al cinque per cento nel 2020 e risalita intorno all’otto per cento nel 2022.

La crescita del turismo straniero ha accelerato la qualificazione dell’offerta Horeca e aiutato a consolidare il trend di crescita dei consumi fuori casa degli italiani. Ricerca e innalzamento della qualità dell’offerta eno-gastronomica, anche su prodotti tradizionalmente low cost come la pizza, oggi diventata oggetto di sviluppo gourmet con prodotti di filiera controllata, incontrano il gusto e le preferenze sia dai clienti italiani, disponibili a pagare un prezzo più alto per un prodotto di qualità, sia dai turisti stranieri sempre ben disposti verso la creatività applicata alla cucina italiana.

Qualità del cibo che sposa tradizione, creatività e sperimentazione, anche nell’abbinamento delle bevande: dai vini alle birre, dai cocktails ai soft drinks, con una spinta al prodotto premium e di nicchia (bio, artigianale, chilometro zero ecc.). In questo quadro, e a dispetto di un mercato del lavoro che fatica a soddisfare la domanda, si assiste a una progressiva centralità delle risorse umane professionalizzate capaci, come nel caso di chef e barman (ma anche camerieri), di decretare il successo o meno dei locali, configurandosi come influencer del gusto, generatori di micro trend, gestori di reti di relazioni e capitale sociale.

Dal punto di vista della struttura imprenditoriale, come ben sanno i distributori che su questi temi hanno sviluppato una particolare sensibilità, il mondo dei pubblici esercizi si conferma un settore connotato da alto rischio, con tassi di turn over tra aperture e chiusure ben al di sopra della media della struttura produttiva complessiva. Ancora nel 2022 il saldo del settore segnava un saldo negativo di cinquemila cinquecento settantasei unità, su un totale di oltre trecentotrentacinquemila esercizi, suddivisi tra centotrentaseimila bar e centonovantacinquemila ristoranti (fissi o mobili), con un’incidenza intorno al dodici per cento di punti con titolare di origine straniera. 

Nel focus posto dal rapporto Fipe-Confcommercio del 2023 sul tasso di sopravvivenza dei pubblici esercizi si rileva come dopo cinque anni dall’apertura, prendendo come anno di riferimento il 2017, quattro aziende su dieci hanno chiuso, cinque in caso di ditte individuali. Da notare, a conferma di quanto raccontato dai distributori, che in termini localizzativi si assiste a una maggior tenuta degli esercizi di ristorazione e bar nelle città medie e grandi, specie se posti all’interno di aree pedonali (o a traffico limitato) nei centri storici, ormai sempre più parte integrante del paesaggio urbano, sempre più tutelati come heritage

Al contrario il classico bar o ristorante senza una specifica identità fatica a sopravvivere a tutte le latitudini e a prescindere dalla localizzazione. Il settore dei pubblici esercizi è ancora largamente appannaggio di micro-imprese, spesso a titolarità individuale o familiare (le catene valgono il dieci per cento del mercato, in espansione nelle grandi città dove pure crescono le società che gestiscono più punti di consumo), in cui la produttiva rimane bassa, l’intensità del lavoro molto alta e poco remunerata, con una struttura dei costi spesso appesantita dagli affitti degli spazi, che in due casi su tre non sono di proprietà degli esercenti.

In sostanza quello dei consumi fuori casa è un mondo che offre opportunità i cui rischi vengono tuttavia spesso sottovalutati, dove l’improvvisazione non è più ammessa e i meccanismi selettivi sulla base imprenditoriale sono molto forti, considerato che il venti per cento degli operatori rappresenta l’ottanta per cento dei ricavi e che quel venti per venti prospera grazie all’innovazione continua in tutti gli ambiti della vita aziendale: dalla comunicazione all’organizzazione, dalla formazione del personale alla digitalizzazione dei processi interni e di gestione dei flussi finanziari. Ad aggravare ulteriormente la struttura dei costi sono poi intervenute turbolenze geopolitiche e geoeconomiche che hanno determinato l’impennata dei costi delle materie prime, dell’energia con l’innesco di un ciclo inflattivo che il settore ha per altro cercato di contenere ben al di sotto del dato nazionale, contenendo la risalita dei prezzi al consumo.

Tratto da “I turismi visti dall’ultimo miglio. Le piattaforme del turismo tra prossimità locale e simultaneità globale” (DeriveApprodi) di Aldo Bonomi e Albino Gusmeroli, pp. 192, 18

 

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