«Se non avessi avuto il mio compagno che mi ha lavato e stirato le camicie per il servizio, non avrei saputo come fare».
È la presa di coscienza di una maître di spessore, che lavora in questo settore da moltissimi anni e che – oggi – ha deciso di cambiare vita e strada. Ma che alla richiesta degli amici di fare un revival per una settimana non sa dire di no, e torna a calcare le scene del ristorante, e lo fa facendo un dritto di sei giorni su sette, turno spezzato su pranzo e cena, dopo qualche mese di lavoro d’ufficio.
È incredula, ogni giorno che passa, e finisce l’esperienza chiedendosi il senso di questo lavoro così faticoso, così aberrante, così totalizzante, che ha fatto per tantissimi anni, prima, senza mai averlo visto con la giusta distanza. Un lavoro così intenso e appassionante, e così difficile da lasciare.
«Questo lavoro è esattamente come la droga: tu ti fai una dose ogni giorno e poi ricominci perché – letteralmente – non ne puoi fare a meno. Alla fine del servizio sei galvanizzata, eccitata, ti senti Dio perché ce l’hai fatta, l’hai portata a casa, sei vivo e lo sono anche i tuoi colleghi, hai fatto tutto come dovevi e sei eccitatissima. Ma cosa hai fatto? Ma ce lo siamo mai chiesti? Non ti rendi conto che domani sarà uguale, e dopodomani pure. E questa è la tua vita e sei così stanca e lavori così tante ore che se non hai qualcuno che ti lava le camicie al ristorante ci vai nuda».
Questo settore va cambiato, bisogna capire come ristrutturarlo, perché così com’è non ha alcun senso: e se parliamo di sostenibilità, dobbiamo prima di tutto parlare di quella per le persone, che al momento sono sacrificate e sfruttate, stritolate in un meccanismo che le uccide un po’ alla volta, senza lasciare loro il tempo di accorgersene, prese come sono da questa retorica un po’ passatista, tipica della cucina di qualche decennio fa ma ancora molto in auge, di salvare il mondo servendo delle persone in un ristorante che non lascia spazio a null’altro.
È una visione maledetta ed eccessiva? Forse, ma non tanto lontana dalla realtà, soprattutto per le fasce meno professionalizzate e per i ristoranti meno in vista sui media ma più comuni per le persone. E se nei locali molto evoluti le cose stanno cambiando, e l’attenzione al personale è ormai un presupposto imprescindibile, per moltissimi luoghi del gusto l’aspetto totalizzante è ancora all’ordine del giorno.
E se vorremo continuare ad andare al ristorante anche tra qualche anno, bisogna capire oggi come fare a rendere questa professione meno usurante, trovando il modo di fare le giuste ore, e la giusta fatica. Senza quel bilanciamento, sarà impossibile alla lunga trovare persone disposte al sacrificio. L’altro lato della medaglia? Il conto e le aperture. Per permettere alle persone di lavorare meno e meglio, il numero di giorni lavorati dovrà cambiare, e probabilmente il nostro ristorante preferito allungherà le chiusure. Oppure dovrà necessariamente fare turni più corti, e avere più personale (se lo troverà!) e di conseguenza alzare i prezzi, e mettere sul nostro conto anche la sostenibilità di vita di chi ci lavora. Saremo disposti a capire che nel prezzo degli spaghetti alle vongole c’è anche la possibilità per chi me le serve di passare del tempo con la sua famiglia?