Se quella di Giuseppe Conte sia una vittoria di Pirro, dal punto di vista politico, lo diranno i sondaggi delle prossime settimane e i risultati elettorali dei prossimi mesi. Sul piano interno, intanto, più che una vittoria, la Costituente del Movimento 5 stelle, per lui, è stata un trionfo: con l’eliminazione della figura stessa del garante, votata dagli iscritti e suggellata dall’applauso liberatorio della platea, il parricidio è compiuto. Beppe Grillo di fatto è stato espulso, con ignominia, dal movimento da lui fondato. Conte adesso è davvero un uomo solo al comando del suo partito, o di quel che ne resterà. E bisogna fargli i complimenti, qualunque cosa si pensi di lui e delle sue idee, ammesso che le si riesca a individuare, non solo per la capacità con cui ha sfilato il giocattolo di sotto al naso del suo creatore, ma soprattutto per come è riuscito a spacciare tutto questo per uno scontro basato su una irriducibile divergenza politica, che non c’è mai stata. Conte, esattamente come Grillo, voleva semplicemente le mani libere.
Tra giochi di parole sul significato da dare al termine «progressista» e una scheda sul «posizionamento politico» in cui tre opzioni su quattro erano ascrivibili alla sua linea («progressisti indipendenti», «progressisti» e basta oppure «di sinistra») dalla Costituente Conte ha ottenuto la piena legittimazione della sua leadership e di quel gioco sul filo dell’ambiguità con il centrosinistra che ha fatto finora e che verosimilmente continuerà a fare fino alle prossime politiche (o comunque fino a quando gli equilibri non torneranno a rendere più conveniente un’alleanza con la destra, o con una sua parte). L’unico rischio, per lui, poteva essere nella partecipazione. Una volta raggiunto il quorum, il risultato era scontato, come confermano le percentuali di approvazione di tutte le sue proposte, perlopiù attorno al 95 per cento. Proprio come spesso accade con i referendum. E in effetti, in quel coacervo di questioni organizzative e dichiarazioni sui massimi sistemi, problemi politici minutissimi e fumose petizioni di principio, dal limite dei due mandati (sostanzialmente abolito) all’ingresso dei lavoratori nella proprietà e nella governance aziendale, dalla costituzione di un esercito europeo all’abolizione del numero chiuso nelle facoltà di medicina, c’era qualcosa che ricordava i referendum a strascico promossi dai radicali di una volta. Ma l’effetto concreto di tutta questa cerimonia è soltanto uno: Conte è ora pienamente padrone del movimento, ha incassato persino il diritto a cambiarne il nome e il simbolo, e può dunque farne ciò che vuole. A saperlo.
Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.