Capita spesso di sentire amici o colleghi lamentare di essere stati vittime di mobbing nelle loro precedenti esperienze lavorative. Secondo la giurisprudenza tradizionale, il mobbing si sostanzia in una serie di atti o comportamenti vessatori protratti nel tempo e caratterizzati da una finalità di persecuzione ed emarginazione della vittima. Non tutti i dipendenti vittime di abusi, però, subiscono mobbing in senso stretto. Questo non significa che le vittime di abusi o insulti sul luogo di lavoro siano privi di tutele.
La sezione lavoro del Tribunale di Tivoli ha recentemente condannato un datore di lavoro al risarcimento dei danni alla dignità personale subiti da un bracciante a seguito dei ripetuti insulti ricevuti mentre svolgeva le sue mansioni. La sentenza motiva la condanna precisando che il lavoratore era costantemente umiliato anche con offese a sfondo razziale che provocavano delle crisi di pianto alla vittima. Il contesto degradante era completato dall’alloggio fatiscente in cui il bracciante era «ospitato» insieme ai suoi colleghi.
La decisione del Tribunale laziale prende spunto da un’altra recente sentenza della Corte di Cassazione, secondo cui «in presenza di comportamenti offensivi della persona, consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, il lavoratore ha diritto, nella misura congrua rispetto al caso di specie ed equitativamente determinata, al risarcimento del danno alla dignità personale».
La dignità dei dipendenti è un valore custodito nella nostra Costituzione che deve essere garantito in tutti i luoghi di lavoro. Non è necessario essere vittime di mobbing per chiedere e ottenere giustizia. Insultare i lavoratori costa (menomale aggiungerei).
*La newsletter “Labour Weekly. Una pillola di lavoro una volta alla settimana” è prodotta dallo studio legale Laward e curata dall’avvocato Alessio Amorelli. Linkiesta ne pubblica i contenuti ogni. Qui per iscriversi