La tregua tra Israele e Hezbollah è incerta e fragile, ma certifica un fatto rilevante: il fallimento della pluridecennale strategia dell’Iran resa a soffocare Israele attraverso i cosiddetti proxy, per arrivare al rivendicato obiettivo primario della rivoluzione khomeinista, «eliminare l’entità sionista dalla faccia della terra». Infatti la tregua attesta quanto sia andato in larga parte in fumo l’enorme investimento pluridecennale iraniano di decine di miliardi di dollari per sfiancare Israele da sette fronti: Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen e naturalmente Iran. La Forza Qods dei Pasdaran che coordina le brigate internazionali sciite oggi deve registrare che ha perso in battaglia i suoi eserciti, i suoi miliziani: ventimila a Gaza, diecimila in Libano tra i morti e i feriti.
Preserva un enorme numero di razzi e missili puntati dall’Iran, dal Libano, dalla Siria e dallo Yemen su Tel Aviv, ma ha difficoltà addirittura a mettere in piedi i quartieri generali che diano l’ordine di lanciarli, perché uno dopo l’altro sono stati eliminati grazie all’incredibile capacità di penetrazione nelle sue fila dimostrata dal Mossad. In Iran, inoltre, i danni all’apparato militare e nucleare dell’ultimo raid israeliano sono stati enormi.
Dunque, Israele non ha affatto ancora vinto la guerra che il regime degli ayatollah e dei Pasdaran ha proclamato unilateralmente, ma ne ha vinto le prime battaglie cruciali, dopo aver subito la sconfitta bruciante e per certi versi vergognosa del pogrom del 7 ottobre.
Questo è il quadro generale. Questa la tendenza del conflitto. In questo contesto, non è difficile prevedere che la tregua in Libano sarà instabile. La ragione è presto detta: l’Iran non ha una strategia alternativa. O decide di abolire il proprio obiettivo strategico – distruggere Israele – e non può farlo perché è la costituency del regime, oppure non può che reiterare prima o poi la pressione militare contro Gerusalemme dei suoi proxis.
Il protocollo della tregua libanese è infatti molto utile a Joe Biden per concludere in bellezza il proprio mandato – e forse per riuscire a ottenere la liberazione degli ostaggi da una Hamas decimata – ma assolutamente inutile per garantire a Israele che non verrà più aggredito a freddo da Hezbollah.
Due sono infatti le forze militari che dovrebbero garantire che i miliziani sciiti si ritirino sino oltre il fiume Litani: l’esercito libanese e Unifil. Ma l’esercito libanese semplicemente non esiste, non esiste dal punto di vista politico, come forza indipendente da Hezbollah, non esiste poi perché non è neanche armato, non ha carri armati, blindati, droni, elicotteri. È composto da soldatini armati di un mitra o di un fucile. Null’altro.
E veniamo a Unifil. Per diciotto lunghissimi anni ha fatto finta di non vedere, ha disatteso platealmente le proprie regole d’ingaggio collegate alla risoluzione 1701 che imponeva il disarmo di Hezbollah. Invece di adempiere la propria missione, non ha neanche dire rimosso, ma almeno segnalato uno che fosse uno delle decine e decine, centinaia di bunker o depositi di armi che Hezbollah ha impiantato nel territorio che faceva finta di perlustrare. Alcuni addirittura a ridosso delle sue caserme. Un quasi ventennio di connivenza con Hezbollah di cui purtroppo il nostro esercito italiano e i suoi generali che hanno comandato Unifil, portano intera la responsabilità e l’onta.
E ora cosa cambia? Chi o che cosa garantisce che le pattuglie Unifil, rinforzate, armi alla mano, facciano finalmente sloggiare i miliziani sciiti dalle loro posizioni? Non lo garantiscono nuove regole d’ingaggio, né gli auspici americani ed europei. Il problema è infatti strutturale. Unifil è una proiezione militare delle Nazioni Unite e come l’Onu funziona, dalla direzione politica dell’Onu dipende. E l’Onu, semplicemente, come forza politica agente non esiste, rispecchia malamente l’esistente, è fisiologicamente incapace di modificarlo. Srebrenica insegna.
Dunque, Hezbollah non verrà sradicato dal sud del Libano. Ma forse, reduce da una sonora e netta sconfitta militare sul campo, rispetterà la tregua di sessanta giorni. Forse. Quel che è certo è che, prima o poi, sempre agli ordini di Teheran, rialzerà la cresta.