Una lunga storia d’amoreGli italiani brindano con lo champagne

Il Belpaese è da tempo uno dei principali mercati del re dei vini con le bollicine. A patto che il portafogli sia ben fornito

Foto di Garry T su Unsplash
Foto di Garry T su Unsplash

Tra gli italiani e lo champagne c’è un’ormai lunga storia d’amore (reciproca). A dispetto di un certo nazionalismo enogastronomico, milanesi, romani e veneziani sono uniti nel culto dell’abate dom Pérignon e del vino che (non) ha inventato. In fondo, quando si tratta di celebrare un evento, di impressionare gli amici oppure di conquistare qualcuno, sia il commendator Zampetti sia Ivano e Jessica cedono al fascino delle “bollicine” di Reims.

Ormai da anni l’Italia è stabilmente il quinto o sesto mercato forestiero per lo champagne, per un giro d’affari assestato tra 200 e 250 milioni di euro l’anno.

A una condizione, però. Una condizione che può sembrare banale ma che non lo è, nella patria dei più grandi risparmiatori del pianeta: che il portafogli sia ben riempito. Basta osservare i dati, infatti, per constatare una stretta correlazione tra l’andamento dell’economia nazionale e le richieste del più blasonato spumante transalpino. Semplificando un po’, ma nemmeno troppo, più il Pil sale, più salgono le importazioni da Reims ed Épernay.

D’accordo, non si tratta di un’esclusiva italiana: lo champagne è da sempre un prodotto che riflette in maniera fedele le congiunture economiche. Qualche esempio? La grande crisi del 1929 fece precipitare le esportazioni da 14,2 a 9,4 milioni di bottiglie (i francesi s’immolarono, aumentando i consumi interni…!). Lo shock petrolifero del 1973 contrasse le vendite mondiali da 124 a 103 milioni di bottiglie. Se guardiamo alla storia più recente, è stata la crisi dei subprime a ridurre i consumi del dieci per cento circa.

Una crescita impressionante
Nella Penisola, dopo il tonfo del 2009 lo champagne sembrava accompagnare senza tentennamenti una sorta di inspiegabile euforia: una spinta quasi inarrestabile ai consumi di coppe e flûtes, nonostante i tempi bui. Tanto che si è tentati di dare credito alle teorie che sostengono che lo champagne sia un efficace antidepressivo (a prescindere dall’alcol, s’intende!).

Ad eccezione dei brevi stop del biennio 2012-2013 (importazioni in frenata del 14-18 per cento, infatti il Pil è negativo) e del periodo Covid, il nettare imperiale è in crescita continua: +8 per cento nel 2014, quasi +10 per cento l’anno dopo, +11 per cento nel 2017, per arrivare alla grande orgia del post-Covid, con numeri da vera e propria resurrezione: +50,1 per cento nel 2021, ancora + 31,5 per cento l’anno dopo.

L’aumento dei margini
Persino quando la crescita sembra rallentare, come nel 2023, con dati che fanno segnare “appena” un +4,8 per cento di bottiglie importate (oltre dodici milioni di bottiglie, un record storico assoluto), l’incremento del valore è assai più consistente (+27,2 per cento). Secondo Nomisma Wine Monitor, che analizza dati doganali, da Trieste in giù si sono spesi 338 milioni di euro in champagne. Come si spiega un tale divario tra volumi e valore? Con l’incremento dei prezzi (stimabile tra il 10 e il 20 per cento nell’ultimo biennio), ovviamente, ma anche con il fatto che gli italiani non si accontentano più di champagne “base”. Secondo il Comité Champagne (Civc), l’anno scorso oltre un quarto degli acquisti in Italia hanno riguardato millesimati e cuvée de prestige (ossia versioni di extra lusso).

Nuvole all’orizzonte
Attenzione però: nelle storie d’amore va tutto bene quando va tutto bene. Quando l’orizzonte si annuvola le cose possono complicarsi. Infatti il 2024 si preannuncia molto meno roseo. Nel periodo gennaio-luglio le importazioni sono crollate di quasi il 22 per cento. E anche se è presto per fare bilanci, le previsioni a fine anno potrebbero essere altrettanto fosche.

Non è la prima volta che il rapporto Reims-Milano-Roma-Napoli s’incrina. A volte ci si mettono la politica e la diplomazia. Come racconta Jean-Luc Barbier, ex direttore del Civc, tra il 1974 e il 1987 l’Italia applicò agli spumanti metodo classico (che a quel tempo erano innanzitutto champagne) un’aliquota Iva del 38 per cento, a fronte del 10 per cento riservato ai metodi Charmat. Complice l’austerity, le importazioni crollarono da 9,8 a 3,8 milioni di bottiglie. Logica conseguenza: l’11 luglio 1985 la Corte di giustizia europea condanna l’Italia per «discriminazione fiscale». E, sempre negli anni Ottanta, a Marsala fu ritirato tutto lo champagne dalle vetrine dei negozi che lo vendevano per protesta contro una decisione di Parigi di vietare l’importazione di alcuni vini italiani.

Ma l’amore, si sa, è cieco. Se scaviamo nel passato, scopriamo con François Bonal che nel lontano 1898, in un Belpaese ancora molto arretrato rispetto ad altre nazioni europee, si importavano già centotrentamila bottiglie da Reims. Era l’undicesimo mercato mondiale, Francia esclusa. D’altra parte, sempre secondo il “Livre d’or du champagne” di Bonal, qualche anno prima l’unico vino non italiano che re Umberto I accettasse alla sua tavola era… lo champagne.

Questo rapporto d’amore-odio (tanto amore e poco odio) ci riserverà ancora conferme o sorprese per gli anni a venire?

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