Gentile dottoressa Valentina, inizio a comporre nella mia mente questa lettera mentre, alle sette di sera, corro in farmacia prima che chiuda perché mi sono accorta d’aver finito le statine. Non ho la ricetta, perché l’unica cosa cui serva un medico della mutua a una persona non povera è fornirle ricette casomai la farmacista si facesse venire uno scrupolo.
E infatti, pochi minuti dopo, la farmacista mi dirà «e la ricetta?», che è una domanda alla quale devo sempre sforzarmi di non obiettare «ma cosa prendete una laurea a fare se poi neanche sapete distinguere tra un tossico che vuole la morfina e una tizia che è assai implausibile abbia deciso di autoprescriversi pastiglie per abbassare il colesterolo?».
La ricetta non ce l’ho, le dico che il medico è andato in pensione e devono ancora assegnarmene uno nuovo. È una scusa più plausibile sia delle bugie – «giuro che domani le porto la ricetta del cardiologo»: chissà dove l’ho messa, potrei metterci un mese a ritrovarla – sia della verità: era dai tempi dei fax che nessuno mi lasciava via lettera, mi sento un po’ visconte di Valmont.
«Si comunica che la dottoressa suo medico di medicina generale, in data 13/11/2024 ha ricusato la S.V. per turbativa del rapporto di fiducia» (virgola come nell’originale, originale che mi fa domandare: perché le maestre elementari non lavorano meglio?).
Inutile le dica, dottoressa Valentina, che tutti ma proprio tutti quelli davanti ai quali ho sventolato la prova del suo disamore hanno detto «poveretta, chissà cosa le hai fatto». Ce ne fosse stato uno, tra parenti e amici e conoscenti, che non fosse disposto a difenderla.
(In verità un’amica ha suggerito «devi fare l’accesso agli atti», ma non era perché pensava le sue motivazioni nel non volermi più come paziente fossero menzognere: è che è un’impicciona e vuole sapere cos’aveva scritto, in che termini aveva descritto la turbativa. Vorrei qui menzionare anche l’amico che si è detto invidiosissimo e mi ha suggerito di dirmi ricusata la prossima volta che qualcuno mi chiede delle righe biografiche da pubblicare: sostiene sia un dato biografico molto rock, e che se gli Stati Uniti d’America avessero avuto un sistema sanitario nazionale sicuramente Janis Joplin sarebbe stata ricusata).
Ora, dottoressa Valentina, i lettori (tra i quali la mia amica impicciona) hanno diritto di sapere quali circostanze, in questo nostro “Kramer contro Kramer”, abbiano condotto alla ricusazione. La prenderò larghissima.
Sono stata viziata dalla vita. A Bologna, il mio medico della mutua era un amico di mio padre. Ciò significava avere a casa i ricettari che lui ci lasciava già firmati e compilarci da soli le ricette quando servivano (lo dico perché credo che per il reato di truffa allo Stato siano scaduti i termini, sennò pazienza tanto son tutti morti).
A Roma, il mio medico della mutua era il genero della mia vicina di casa: se mi serviva qualcosa, gliela chiedevo incrociandolo sulle scale quando la domenica portava le pastarelle alla suocera. Tutti dicono che prima la sanità pubblica funzionasse meglio, e sono certa che fosse così: prima dell’esistenza del ssn, persino nelle commedie che sbeffeggiavano i medici della mutua Guido Tersilli vedeva i pazienti più di quanto facciano i medici contemporanei. Io però non ne ho prove, perché finché non sono andata a vivere a Milano non ho avuto modo di vagliare la reperibilità dei medici per la gente normale. A quel punto, per far capire quanto fossimo avanti negli anni, esisteva già Facebook: era già andato a puttane il mondo, figuriamoci il ssn.
Mesi fa Luca Bottura ha scritto su Twitter il solito lamento di chi fa presente che per una tac da prenotare nel pubblico ci sono da aspettare cent’anni mentre se paghi te la fanno domani. Quel giorno chissà cosa non avevo voglia di scrivere, quindi gli ho risposto che però chi guadagna benino come noi nel pubblico non dovrebbe prenotare proprio, togliendo tempo e risorse a chi un esame privato non può pagarselo. Mi hanno risposto taluni invasati accusandomi di volere la privatizzazione della sanità, perché anche le risorse dell’istruzione pubblica sono quelle che sono e ce li ritroviamo sui social, una volta adulti, analfabeti e perentori.
Quel che non ho detto quella volta è che, a farmi l’esame nel privato, sono abbastanza certa sia più accurato. La regione Emilia-Romagna mi passa la mammografia. Ci sono andata una volta. Avendo dei precedenti, ho spiegato – a una ragazza (hai detto «ragazza» invece di «dottoressa» perché sei maschilistaaaa) che mi guardava come mucca guardava treno – che dovevano controllare gli esami pre-esistenti che avevo portato: mi ha detto che non era sicura di poterli prendere in visione. Dalla volta successiva sono tornata a farli in un posto di cui mi fido e al quale do quattrocento euro ogni anno.
L’anno scorso, dottoressa Valentina, ero nel suo studio. Lei non c’era, come sempre. Non l’ho mai vista, così come non ho mai visto il medico precedente poi andato in pensione: ci sono sempre dei sostituti, mentre voi immagino siate a fatturare presso la sanità privata, visto che tutto quel che vi si chiede è di lavorare quindici ore a settimana (poi ci lamentiamo dei professori di liceo, le cui diciotto ore in confronto son la miniera).
C’era la sua sostituta, e quando le ho detto che avrei fatto la settimana dopo l’ecografia e la mammografia e se poteva per favore scrivermi due righe perché, avendo saltato un anno, non ricordavo se essendo raggi servisse la richiesta d’un medico – richiesta non mutuabile: avrei comunque fatto l’esame pagando i miei bravi quattrocento euro – ha innanzitutto obiettato che non servisse la mammografia. Certo, in effetti tra le procedure prescrittemi dall’istituto dei tumori e le linee-guida al risparmio mandate a memoria dalla sostituta trentenne del medico della mutua credo che mi fiderò della seconda.
Poi ha sostenuto che non ci fosse bisogno d’andare dove li facevo di solito perché quegli stessi esami li passava la regione. Ora. Negli ultimi due anni, poiché le risorse sono una quantità finita, lei Valentina ha smesso di farmi la ricetta per la fialetta di vitamina D che prendo ogni due settimane per evitare che mi venga l’osteoporosi. Ha smesso perché lo Stato da qualche parte deve tagliare, e quindi taglia quegli otto euro (forse meno? Forse ci pagavo il ticket? Non ricordo, comunque a prezzo pieno sono otto euro al mese). Perché volete far pagare una mammografia a uno Stato che non mi può pagare otto euro di vitamina D e preferisce rischiare che mi venga l’osteoporosi e di dovermi poi curare a vita? Perché niente ha un senso? Perché il ministro del Bilancio non lavora meglio? Ah, non c’è più? Sarà per quello?
Comunque, poi non serviva la richiesta per la mammografia e quindi io non ho più avuto bisogno di rivolgerle la parola se non per, ogni due mesi, scriverle di segnarmi sul fascicolo sanitario le pastiglie per la pressione e quelle per il colesterolo. Prima, per farlo, le mandavo una mail. Lei risponde al telefono dalle otto alle dieci di mattina, ma una volta l’avevo chiamata e m’aveva redarguita: si telefona solo per le emergenze (Guido Tersilli, scusaci, Guido Tersilli, eri uno stakanovista).
Successivamente ha abolito anche la mail: per chiederle ricette o altro le si scrive su una piattaforma (sulla sicurezza con cui la piattaforma gestisce i miei dati sensibili non voglio indagare sennò diventa una cosa seria, e non conviene né a me né a lei che lo sia). Quando lei risponde, sotto la sua risposta compare che «questa conversazione è stata chiusa da Valentina» (c’è anche il cognome, ma qui lo omettiamo: facciamo come se avesse una reputazione ed essa si potesse rovinare).
Quindi se voglio dirle qualcos’altro devo aprire una nuova richiesta, sotto la quale – essendo nuova – lei non vedrà la conversazione precedente, non capirà di cosa parlo, non si ricorderà chi sono, bisogna ogni volta ripetere tutto daccapo: tutto il lavoro che non ha intenzione di fare lei, devono farlo i pazienti.
A novembre ho avuto bisogno di lei perché avevo perso la ricetta d’uno specialista che sta in altra città, me l’ero fatta rimandare per mail, ma la farmacista bolognese voleva l’originale da timbrare. Oppure, mi aveva detto, si faccia fare la ricetta dematerializzata. Me l’aveva detto giacché nessuno sa fare il proprio lavoro, neanche la farmacista che non sa che la sanità è regionale e la segretaria di medico privato in altra regione non solo non sa cosa sia una ricetta dematerializzata, ma se anche me la facesse la farmacia bolognese non la vedrebbe sul suo terminale.
Certo, potevo andare in altra farmacia (come poi ho fatto), ma inizialmente ho avuto un momento di zelo in cui ho deciso di dover risolvere questa questione (chissà quel giorno cosa non avevo voglia di scrivere). Le ho inviato un messaggio sulla solita piattaforma. Mi ha risposto una sostituta (un’altra, non quella secondo cui non dovevo fare la mammografia) dicendomi che il farmaco non era mutuabile (avevo scritto che mi serviva una ricetta non mutuabile, ma per la comprensione del testo facciamo tutt’un conto e lo mandiamo alla Falcucci o a chiunque ci sia all’inizio dello sfascio ormai avanzato).
Ho dovuto aprire un’altra richiesta, rispiegare daccapo, e la sostituta ha continuato a capire il cazzo per l’equinozio. Ricopio la conclusione del mio terzo messaggio: «Come spiegato tre messaggi fa in questa surreale conversazione frammentata che avviene perché le mie tasse pagano un medico la cui priorità è non essere reperibile dai pazienti, e quindi non la posso chiamare e spiegarle a voce quel che, pur essendo il mio mestiere scrivere, non riesco a farle capire per iscritto. Che paese meraviglioso». A quel punto la sua sostituta mi ha chiamata. Stavo per mettermi a piangere per la commozione, giuro.
Ne sapeva persino meno della farmacista e sosteneva che quel farmaco potesse essere prescritto solo da un determinato specialista (non credo esista proprio la categoria dei farmaci prescrivibili solo da una certa categoria di medici, di sicuro non lo è nessuno di quelli che prendo io, e la ragione per cui lo so è che sono una perditrice seriale di ricette e mi sono negli anni fatta riprescrivere qualunque cosa da chiunque avesse un ricettario, dentisti compresi). Però era gentile, e soprattutto mi ha detto che la conversazione non la chiudete voi ma automaticamente la piattaforma. Forse era una bugia, ma caritatevole.
Solo che, quattro giorni dopo, lei ha aperto la piattaforma, e mi ha mandato venti indignate righe. Chiaramente indignate perché era costretta a scrivermi, a perdere tre minuti, che si aggiungevano alle ben due ore al giorno in cui visiterebbe i pazienti cinque giorni a settimana se non li visitassero le sue sostitute. Ricopio parte della sua indignazione: «Ogni medico è infatti responsabile di quanto prescrive ed è tenuto a fornire al paziente una ricetta utilizzabile delle terapie che eventualmente consiglia e non può demandare a nessun altro collega la prescrizione».
Scusi, ma lei mi prescrive da anni le terapie che mi ha dato il cardiologo, quelle che mi ha dato l’endocrinologo, quelle che mi ha dato chiunque altro, chiunque mi abbia visitata, cioè non lei che non so che faccia abbia. Per inciso, e tornando alla medicina di base e ai di essa problemi che non sono rappresentati solo da lei, cara Valentina, sono tre anni che il cardiologo mi ha dato le pastiglie per la pressione, e sono tre anni che non ho più mal di testa. Venti e più anni di mal di testa invalidanti, venti e più anni di medici della mutua o come vi chiamate ora che mi provavano la pressione, chiedevano non si sa a chi «ma come mai è così alta?», e nessuno che avesse fatto due più due. Se non m’è venuto un ictus, in decenni di pressione a tremila, attiene più a un miracolo che a la-sanità-pubblica-migliore-del-mondo.
Il lettore più attento noterà che lei riceve dieci ore a settimana. Ma non avevo detto quindici? Prendo le quindici ore dal libro “Codice rosso”, da cui prendo anche i suoi emolumenti. Millecinquecento pazienti (qualcuno arriva a milleottocento, non so se lei), per ognuno 3,51 euro, che quasi raddoppiano se ha più di settantacinque anni o meno di quattordici. Poi 29 centesimi per la segretaria (33 per l’infermiere che lei mi pare non abbia), e poi tutti gli extra, dodici euro ogni medicazione, quasi diciannove per ogni visita a domicilio a invalidi e insomma mi pare ovvio che non è previsto che lei lavori e che ogni cosa che s’incomoda a fare e che riguardi il suo lavoro le viene pagata in più. Forse anche le cinque ore mancanti, quelle in cui non visita ma mi scrive sulla piattaforma «La prego di mettere da parte i toni polemici e di avere rispetto per quanto le viene comunicato e per la nostra professione, aspetto indispensabile per poter proseguire adeguatamente la nostra relazione terapeutica». La nostra relazione terapeutica è qualche cosa di diverso, non è per niente amore ma non è forse neanche efficienza.
L’Emilia-Romagna è la terza regione per guadagni dei medici di base, dice “Codice rosso”, in media 117mila 839 euro. Naturalmente secondo il libro voi siete dei santi e degli eroi, lavorate in realtà molto più di quindici ore al giorno, altro che a settimana, ed è il sistema che vi vessa. Non si vendono libri dicendo ai lettori che sono degli sfaccendati, d’altra parte.
Cara Valentina, lei non è sola. La lettera di ricusazione diceva che sarei decaduta da sua paziente dopo sedici giorni dalla comunicazione, e ce ne ha messi dodici ad arrivare (perché le poste non funzionano meglio?). Temprata dai precedenti (l’ultima volta ero dovuta andare alla Asl: la lettera che mi comunicava il pensionamento del medico era arrivata a medico già in pensione, e se non hai più un medico curante non puoi collegarti al fascicolo sanitario), sono corsa al computer a sostituirla.
Ci ho messo un bel po’, perché il fascicolo sanitario non mi faceva entrare (perché i programmatori informatici non lavorano meglio?). Ma ora ho di nuovo un medico di base, che possa dire al farmacista che no, non mi sto drogando con le pastiglie per la pressione, è proprio che me le ha date un medico. Dovrò continuare a dirgli che giuro che non mi drogo neanche con la vitamina D, è che le ricette degli specialisti sono accartocciate in fondo a qualche borsa, e la mutua vuole che la paghi coi miei spiccetti e quindi non ho la ricetta privata né quella pubblica.
Se sono fortunata, incontrerò un farmacista dotato di buon senso. Altrimenti, ce ne sarà uno che, con la faccia di chi si sente chiedere una siringa da insulina e una fiala d’acqua distillata, dice che solo per questa volta, ma ci vuole la ricetta. Beata lei, Valentina: con tutto quel tempo libero, scommetto che s’innervosisce meno quando incontra uno specchio, o qualcuno che non sa fare il proprio lavoro.