Una finestra sul pericoloLa ricerca della verità di Annie Ernaux riesce a dare voce all’indicibile

Il libro intervista di Frédéric-Yves Jeannet, “La scrittura come un coltello” (L’Orma), è un intreccio tra una conversazione e un’analisi della visione della scrittrice francese sulla letteratura e il suo processo creativo

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Uno scrittore che vive dall’altro capo del mondo, in Messico, scopre e si appassiona ai romanzi di Annie Ernaux. Presto sente il bisogno di scriverle, iniziare una corrispondenza che mail dopo mail, fra il 2001 e il 2002, interroga il suo universo formale, ne indaga le radici, gli slanci, la coscienza di un progetto che di libro in libro si rende più chiaro, dotato com’è di uno statuto inimitabile nella forma e di una voce tutta sua. Nasce così “La scrittura come un coltello”, edito da L’Orma Editore e da questo mese presente anche nelle librerie italiane: una conversazione fra Frédéric-Yves Jeannet e la scrittrice francese destinata, vent’anni dopo, a conquistare il premio Nobel per la letteratura.

La cifra stilistica di Ernaux si presta con facilità a questo lavoro di ricerca, dato che i suoi romanzi scelgono di virare ben presto dal canone a una forma ibrida, in cui a risuonare è la presenza di due piani che si mescolano e che s’intrecciano: quello diegetico della storia che l’autrice narra, e quello extra-diegetico in cui a essere esplorati sono i meccanismi stessi della scrittura, i limiti, le intermittenze, le occasioni. 

È trascorso del tempo da quando Ernaux si lamentava della tendenza di una certa critica a identificarla nell’universo della «scrittura al femminile» – donne che scrivono rivolgendosi ad altre donne – e della conseguente riduzione che traeva linfa da chi la definiva: un’autrice che parla di sé. Quel qualcosa «di duro, pesante, persino violento» che Ernaux porta nella letteratura, qualcosa «di nuovo e, sempre, di reale» scivola anche nelle riflessioni che le domande di Jeannet stimolano di volta in volta. 

Non usa parafrasi, Annie Ernaux, e come accade nei suoi libri la voce che sgorga pagina dopo pagina è limpida ed affilata: «Il posto, Una donna, La vergogna e, in parte, L’evento sono più che autobiografici, sono auto-socio-biografici». È qui che si accende la scintilla del suo modo di concepire e di fare letteratura, in un Io narrante capace di trascendere nel Noi, ponendo attenzione non solo all’universalità dei sentimenti umani, ma anche all’unicità di un dato contesto storico e sociale, dentro cui l’autrice getta quella luce che ne identifica i meccanismi, rendendo radioso e quindi comprensibile ciò che c’è dietro: le ingiustizie sociali, i congegni di potere. Tutta la scrittura di Ernaux è un atto di riduzione della lingua all’essenziale che si rende necessario, in fondo, proprio in virtù del passaggio da figlia della classe dominata a donna, docente e scrittrice e intellettuale della classe dominante.

Sulle parole cade il bisogno di non cedere al manierismo, di abolire quegli orpelli che si sono tramutati spesso in retorica volta a imporre il proprio potere sugli altri, e a tracimare dal fraseggio dritto e tagliente non resta che la verità, anzi, la violenza della verità. «Per quanto mi riguarda, la violenza – nei primi libri esibita, poi trattenuta, e compressa all’estremo – affonda le radici nella mia infanzia, lo sento. So che in me persiste una lingua dal codice ristretto, concreta, la lingua originaria, e cerco di ricrearne la forza attraverso la lingua elaborata che ho acquisito». L’immaginario delle parole, per Annie Ernaux, è questo per sua stessa ammissione: la pietra e il coltello.

Oltre allo stile, poi, il metodo. Il dialogo con Jeannet ha il pregio di rendere note anche le tappe del processo creativo della scrittrice, il modo in cui procede mentre lavora a una storia. Sono molti i riferimenti ai diari e alle agende che Ernaux ha l’abitudine di tenere da quand’era ragazza, ma che lei considera, in quanto scrittrice, alla stregua di un documento storico a cui attingere tutt’al più come promemoria, e mai come traccia preliminare di un romanzo.

Sfatato il mito di una scrittura solo diaristica, che le è stata spesso rinfacciata finendo per qualificare più chi la tirava in ballo che il progetto letterario di Ernaux, più alto, e di certo non ombelicale, si riflette su una prassi di lavoro basata sulla memoria, sì, ma capace di trasformarsi in una ressa di immagini, cose viste e ascoltate, scene dall’infanzia e spezzoni di frasi, che servono come epifanie attraverso cui indagare clinicamente la realtà.

Tutti noi, fa notare Ernaux, siamo il prodotto della nostra storia e che questo si rifletta sulla scrittura è inevitabile. «Perciò giocano un ruolo importante il romanzo familiare di ciascuno, l’ambiente d’origine, le influenze culturali e, ovviamente, la condizione legata al sesso». Identità, radici e fantasmi sono gli ingredienti di ogni processo letterario: se è vero che possono strutturarsi nelle infinite forme che un congegno resistente al tempo come il romanzo offre e per sempre offrirà, è vero anche che è impossibile prescinderne.

Ad arricchire il libro-intervista c’è, inoltre, l’intervento dell’editore e traduttore di Ernaux, Lorenzo Flabbi, che ricostruisce l’approdo nel nostro paese della scrittrice francese, ragionando sulla sfida che i suoi romanzi pongono a chi la traduce. La ricerca della parola giusta, per un’autrice così in controllo del suo stile, si mescola a quella della verità, che Ernaux compie spericolata di libro in libro: oltre il proprio Io, ma a patto di partire da sé. «Ecco, forse un modo per superare il paradosso è dirsi: questa verità è più importante della mia persona, del mio interesse per me stessa, di ciò che si penserà di me, ed essa merita, esige che io corra dei rischi».

Lo sforzo di raggiungere quella verità tanto è vivido nei romanzi, così è chiaro nelle risposte che offre a chi la intervista. Ernaux svela la propria scrittura con lo stesso piglio con cui aggredisce le sue storie auto-socio-biografiche. Per un’autrice come lei, la verità può essere raggiunta soltanto in questo modo, senza paura di dire, ma dando voce all’indicibile, e sempre «passando attraverso il pericolo…».

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