«Se non mi sono ancora suicidato è perché, forse, ho ancora speranza». Lo dice a Linkiesta Ashkan Khatibi, quarantacinque anni, attore, cantante e regista iraniano, dissidente della Repubblica Islamica. «Forse non per me, perché sono troppo anziano. Ma per il mio popolo sì: aspetto con ansia quel giorno in cui gli iraniani torneranno ad apprezzare la vita», aggiunge con voce franta da un pianto accennato, appena abbozzato, che però non esplode. Per uno come lui che le lacrime le ha nel nome – questo è infatti il significato in farsi di ashkan – il dolore è un ostinato compagno con cui fare i conti ogni giorno. Sul palco come nella vita. E la pièce “Lui” (“او”), in prima assoluta dal 19 al 24 novembre al Teatro Franco Parenti di Milano, ne è la dimostrazione.
«La sceneggiatura di questo spettacolo è basata su ciò che ho vissuto io in questi anni, la censura illiberale e le angosce continue, ma al tempo stesso esprime la tragedia di milioni di iraniane e iraniani piegati dal regime teocratico», spiega Khatibi. «“Lui” dà voce a chi, anche se solo per un giorno, ha dovuto fare i conti con la dittatura e ne è rimasto vittima per colpa delle sue idee o del suo sesso. L’arte, e nel mio caso il teatro, è l’arma più potente per combattere contro i dittatori. A differenza della notizia d’attualità, infatti, l’opera artistica racconta una storia che suscita emozioni forti nello spettatore e perdura nel tempo».
“Lui” è stato concepito circa due anni fa nelle notti insonni di Istanbul, dove l’artista era andato in esilio volontario. «In quei giorni stavo malissimo. Avevo frequenti attacchi di panico e pensavo spesso al suicidio. Ho iniziato a scrivere un diario a mo’ di testamento, per far conoscere alle persone che mi volevano bene quello che stavo passando. All’inizio non pensavo di fare di quel materiale una sceneggiatura, erano pensieri sparsi di una persona al culmine della disperazione», dice.
Pochi mesi prima Khatibi, più di due milioni di follower su Instagram e tanti riconoscimenti in Iran, aveva clandestinamente lasciato il proprio Paese. L’uccisione di Mahsa Amini del 16 settembre 2022 e l’esplosione di violenza nei confronti di donne e dissidenti che ne seguì erano state le gocce che avevano fatto traboccare il vaso della sua sopportazione. Aveva deciso di interrompere la produzione teatrale a cui stava lavorando e di prendere le difese dei manifestanti tramite dei post sui propri canali social.
La scelta di esporsi in prima linea ha attirato le ire del regime. Una sera, verso le sette di sera, di ritorno da una passeggiata con il suo cane nei pressi della propria abitazione a Teheran, Khatibi è stato sequestrato da un gruppo di agenti dell’Irgc, il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica. Una violenza a cui, lui come altri dissidenti al governo teocratico, sono stati sottoposti negli ultimi anni.
«Ero quasi sulla soglia di casa, quando ho sentito una voce dietro di me che mi chiedeva: “Lei è Ashkan Khatibi?” – che è come se qua in Italia avessero chiesto a Favino “Lei è Pierfrancesco Favino?”. Io ho risposto di sì e a quel punto loro mi hanno preso e portato in macchina. Durante il viaggio mi hanno messo un sacco in testa perché non vedessi dove mi stavano portando. Poi mi hanno condotto in una stanza in cui c’erano altri tre agenti dell’Irgc, tutti con addosso degli occhiali da sole, nonostante fosse ormai notte. Uno di loro era molto giovane. Gli agenti mi hanno ordinato di scrivere una lettera di scuse alla Guida Suprema. Io li ho ascoltati perché volevo uscire da quella situazione al più presto. Avrò riscritto quella lettera un centinaio di volte perché secondo loro non andava bene. Ho dovuto scrivere che ero pagato dal governo di Israele per incoraggiare le proteste di quei giorni e altre fesserie simili. Alle tre del mattino mi hanno lasciato andare, dicendomi che nelle settimane successive ci sarebbe stato un processo a mio carico».
Khatibi ricorda quegli attimi con un misto di rabbia e sconforto. Dice che ciò che più l’ha convinto a lasciare l’Iran è stato il momento in cui un agente gli ha preso i capelli – la sua folta chioma di ricci scuri – e gli ha sbattuto ripetutamente la testa sul tavolo su cui c’era il foglio. «Mi sono sentito come un palloncino, o qualcosa del genere», commenta Khatibi. «Lì ho realizzato che se si permettevano di fare così con una persona famosa come me, allora voleva dire che erano capaci di violenze ben peggiori nei confronti delle persone normali». Una volta rincasato aveva annunciato alla moglie che sarebbe partito. Non le aveva detto cosa gli era capitato quella notte.
Prima di raggiungere la Turchia segretamente e per vie illegali, l’artista è stato convocato diverse volte dal Ministero dell’Arte e della Cultura e del Dipartimento d’Intelligence. In quelle occasioni gli sono state porte delle scuse da parte dei funzionari statali a nome del regime, in un caotico – e distopico – tentativo di recuperare il consenso di una personalità influente nel Paese. Khatibi aveva capito le loro intenzioni e non abboccò. Si limitò a fingere e a fare buon viso a cattivo gioco, dicendo che Donna, Vita, Libertà era un movimento manovrato da una potenza straniera e giustificando la sua pausa dal lavoro come un momento di stanchezza. «Perché vedi – ci spiega – quando dormi qualcuno deve svegliarti, ma quando hai gli occhi chiusi ma sei già sveglio nessuno ti può svegliare».
Nel frattempo, Khatibi era riuscito a ottenere un visto per sé e per la moglie all’ambasciata spagnola di Teheran. Lui era pronto a partire, lei un po’ meno: voleva rimanere in Iran ancora un po’. Khatibi ha deciso quindi che sarebbe prima andato in Turchia e poi i due si sarebbero ricongiunti in Spagna nelle settimane successive. Ma la donna è stata trattenuta in aeroporto e il piano è andato in fumo. Il regista è stato così quasi un anno da solo a Istanbul. Per tre mesi la sua permanenza è stata coperta da un visto turistico. Poi ha iniziato la sua vita da clandestino nemico del regime. «In quel periodo mi nascondevo in casa e cercavo di evitare i contatti con le persone. Uscivo per venti minuti ogni due settimane di notte per vedere il cielo». È in questi giorni bui che il testo di “Lui” ha visto la luce.
A mettere fine alla «prigionia» di Khatibi è stato l’intervento congiunto del regista teatrale Davide Livermore, del traduttore Michele Marelli e della giornalista del Corriere della Sera Greta Privitera, che hanno mediato con il Ministero degli Esteri per concedere un visto al regista. Giunto in Italia nell’agosto 2023, Khatibi ha iniziato a lavorare come insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Nei mesi seguenti ha scritto e realizzato due spettacoli teatrali, “E poi fu l’alba” (dicembre 2023) e “Le mie tre sorelle” (aprile 2024), lasciando la sceneggiatura di “Lui” nel cassetto. «Il mio terapeuta – dice – mi aveva sconsigliato di prendere in mano quell’opera. Evidentemente non avevo ancora le forze per riaffrontare quelle tematiche».
Poi la svolta. La scorsa estate Andrée Ruth Shammah, direttrice del Teatro Franco Parenti, gli ha proposto di portare in scena “Lui” – di cui, nel frattempo, era anche stato fatto un libro (“Lui”, Baldini + Castoldi). E così ad agosto, in una sala del teatro di via Pier Lombardo, hanno avuto inizio le prove dello spettacolo. Khatibi era regista e unico attore della pièce. Tornare sul palco ha significato rivivere gli incubi, le torture, le violenze subite. Una dolorosa immersione nel passato che «non ha riguardato soltanto quei mesi a Istanbul o le ultime settimane a Teheran, ma tutta la mia vita, da quando sono nato a oggi», dice Khatibi. «Un iraniano deve fare i conti con il Corano fin da sul primo respiro. Appena dopo il parto, infatti, i padri prendono in braccio i propri figli e sussurrano loro nell’orecchio “Allah U’ Akbar”. Questo sigillo ti rimane dentro, anche durante gli anni della scuola, quando ti insegnano che gridare “Morte all’America” e “Morte a Israele” è una cosa buona. E poi ancora, qualunque sia la professione che tu intraprenda, la tua libertà verrà messa a dura prova in Iran».
Con “Lui” Khatibi mette al centro il valore della libertà, spesso dato per scontato da noi occidentali, e fa da eco alle sofferenze del suo popolo. «Perché vedi – ci spiega – gli iraniani non sono così tanto interessati alla politica o alla guerra contro Israele. Gli iraniani desiderano innanzitutto tornare a vivere una vita normale, a scegliere come vestirsi al mattino e di cosa parlare in pubblico». Racconta poi di un episodio avvenuto qualche giorno prima mentre era in compagnia di Sadaf Baghbani, una giovane attrice iraniana la cui esperienza di dissidente ha ispirato il dramma “Le mie tre sorelle”. I due stavano passeggiando per Milano, quando all’improvviso Baghbani si è fermata a guardare alcuni ragazzi e ragazze che stavano bevendo uno spritz e ridendo felici ai tavolini di un bar. «Non cerchiamo altro che questo – aveva detto – e loro ci stanno uccidendo».