Orwell in pancettaL’onnipotenza di Michela Murgia, e la calcolatrice della sua corte dei miracoli

La differenza tra la morta e i vivi non è che lei non avrebbe invitato a una fiera un suo protetto accusato di aver fatto brutte cose (figuriamoci): è che lei l’avrebbe fatto senza farsi travolgere da timori e precisazioni e aggiustamenti del tiro

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L’anno scorso, un famoso intellettuale romano si è ritrovato in commissariato. Avevano fatto una retata in uno di quei centri massaggi col lieto fine, e avevano portato via anche i clienti, tra cui lui.

Il famoso intellettuale romano non ha gran consuetudine con le forze dell’ordine e non sapeva che cosa gli convenisse dire, quindi a un certo punto voleva chiamare un qualche avvocato per farsi suggerire che versione dei fatti far mettere a verbale.

Il dialogo che seguì è lo stesso intellettuale – piuttosto spiritoso e pochissimo discreto – a raccontarlo. Lui che dice «Ho diritto di fare una telefonata», e il poliziotto che gli risponde «Dotto’, lei ha visto troppi film americani: può chiamare chi le pare».

Forse, con le versioni deliranti che vengono date dell’affaire Caffo – l’intellettuale ignoto ai più che, ohibò, era stato invitato a parlare d’un libro che non abbiamo letto in una fiera alla quale non parteciperemo, intendo noi persone normali – c’entra sempre il cinema. Quello dal quale prendiamo la convinzione che la defunta fosse santa (nei film le defunte sono sempre sante, finché si scopre che non lo erano).

Le ricostruzioni dilettantesche secondo cui, santo cielo, Michela Murgia si rivolta nella tomba, quelle ricostruzioni lì fanno ridere chiunque abbia un’idea anche vaga di come fosse Michela Murgia, chiunque abbia un’idea anche vaga della vita e della drammaturgia, chiunque sia meno scema della lettrice media di Michela Murgia.

Ovvio che, con la sua lettrice, Michela Murgia praticasse la finzione del sono-come-voi, l’unica con la quale si diventi autrice di best-seller (che, annotava Enrico Vanzina in “Le finte bionde”, non sono mai letti dai best reader). Chiaro che il suo pubblico non eravamo noi felici pochi in grado di chiederci, di fronte a “Stai zitta”, che verosimiglianza potesse mai avere il quadretto in cui qualcuno zittiva Michela Murgia, una cui non facevano certo difetto il piglio e il caratteraccio.

Evidente che il pubblico cui parlava era quello in cerca d’immedesimabilità, la commessa di Sephora che va nei gruppi Facebook a lamentarsi della suocera che impone la sua presenza, del marito che la costringe ad andare in vacanza dove lei non vuole, della madre che siccome paga il pranzo di nozze vuole che al matrimonio della figlia sia invitata gente che a lei non piace e lei, porella, non è in grado di difendersi da sola.

Altrettanto ovvio è che la storia di “Più libri più liberi”, quella dell’invito a un cocco di Michela Murgia, uno che Michela Murgia aveva difeso anche dopo la denuncia dell’ex compagna, non è la storia di un invito per cui la Murgia si rivolta nella tomba, per cui la Murgia s’indignerebbe, per cui la Murgia piangerebbe (pure questo, ho letto: dio o chi per lui salvi la nostra memoria da quelli che quando saremo morti millanteranno confidenza). È la storia d’un invito che la Murgia avrebbe fatto tale e quale, ma meglio.

Tale e quale perché è un invito figlio d’un delirio d’onnipotenza, il delirio d’onnipotenza che ti fa pensare di poter coltivare una corte di gente il cui strumento comunicativo è far la morale ai rapporti di forza, e poi di poter ottenere il silenzio a comando quando a violare la morale nei rapporti di forza è un amico tuo.

E nessuno ha avuto un più spettacolare delirio d’onnipotenza di quello che caratterizzava Michela Murgia, che convocava al capezzale una conoscente cui stava antipatica una sua amica per farsi promettere che non l’avrebbe tormentata dopo la morte della sua protettrice, che si faceva giurare dal marito che dopo la sua morte poteva stare con tutte ma con quella mai, che non pagava le tasse perché «io sono separatista sarda» e poi fotografava le medicine col prezzo dicendo che meno male che abbiamo il servizio sanitario nazionale, che in generale era così splendidamente debordante in ego da credere di poter controllare quel che sarebbe accaduto quando non fosse stata più presente, presente e percepita onnipotente.

Naturalmente il giochino non funziona, perché nulla spezza i rapporti di dominio intimo come la morte della mamma Ebe di turno. Muori e sei morta, muori e non puoi più dare ordini neanche a chi vive nella casa che hai scritto fino alla fine per comprare, muori e la versione di te che resta è quella narrata da noi, muori e possiamo andare a farci belli nei premi che ti daranno da morta, muori e diamo interviste dicendo che quelle cartelle esattoriali sono un equivoco, muori e ribadiamo quant’eri santa mentre curiamo quante più opere postume si possano mungere, ma certo non facciamo quel che volevi te.

Andiamo a letto con chi ci pare, polemizziamo con chi ci pare, al notaio diciamo che l’eredità la accettiamo con riserva finché tutte quelle cartelle esattoriali non si capisce se siano più o meno dei fantastiliardi di diritti d’autore che hai prodotto per noi fino all’ultimo respiro. Non è che siamo ingrati: è che chi muore giace, e chi vive si mette lì con la calcolatrice e vede se gli conviene ereditare.

Ogni volta che leggo che Michela Murgia non avrebbe mai accettato che Caffo venisse invitato a “Più libri più liberi” mi viene da ridere pensando a chi s’interrogava sul mistero della sua stima per questo tizio antispecista (spiego casomai tra i lettori ci fossero persone normali: gli antispecisti sono quelli che pensano che, se mangiate la pancetta, siete cannibali, che il porco sia un vostro pari e non roba allevata per sfamarvi, e anzi a questo punto non si capisce perché non sia il porco a mangiare voi), sull’affratellamento con cui lo difendeva dopo la denuncia della ex e dopo il rinvio a giudizio, avvenuti a lei ben viva.

Ieri parlavo con dei suoi amici ed eravamo tutti certi che Michela Murgia da un pasticcio così sarebbe uscita con meno umana goffaggine di quella che caratterizza Chiara Valerio, ormai intenta da settimane a tappare le falle d’una nave da cui sono scappati i topi, gli intellettuali, le puttane.

Ci chiedevamo però con che guizzo avrebbe risolto, Michela Murgia, la polemica, se un suo protetto avesse avuto un libro in uscita ma anche un processo in chiusura e insomma toccava aiutarlo a promuovere l’opera ma anche spiegare perché tutti i maiali sono uguali ma certi sono più uguali di altri (è Orwell in variazione pancetta, lo dico casomai il lettore medio si smarrisse nell’antispecismo e pensasse che sto dando a Caffo del porco).

Con qualche monologo aggressivo invece che dolente? Convincendo Caffo a raccontare che anche lui è stato menato? Suggerendogli di spostare l’uscita in primavera in modo che non si notasse se la fiera romana di dicembre non lo invita e diventassero cazzi della Benini al Salone di Torino? Chissà, non lo sapremo mai.

Quel che so è che l’anno scorso, a “Più libri più liberi”, c’era l’incolpevole Calvino spiegato da Carlotta Vagnoli. Ci sono sempre tombe in cui rivoltarsi, ma ci sono anche sempre troppi film americani visti negli anni di formazione, e che ci hanno convinti che le tizie fotogeniche potessero essere convertite in intellettuali, che i gruppetti di amiche da film ambientati nei licei potessero stabilire d’imperio il dicibile e l’indicibile negli ambienti culturali, e che, se hai troppa consuetudine con le mignotte, sarà meglio che l’avvocato ti risponda al primo squillo, sennò ti fai la notte in gattabuia.

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