Mentre morivoL’energia sovrumana di Michela Murgia e l’inadeguatezza di noi che stavamo a guardare

La scrittrice ha fatto della sua esistenza una militanza politica, e del suo ultimo anno un’agonia piena di vita. Chissà come faceva ad avere tutta quella voglia di esserci, con tutta quella sofferenza addosso

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Una cosa che non avevo mai immaginato, fino al Natale del 2021, era che ci fossero persone convinte che, se non sei d’accordo con qualcuno, allora ne desidererai la morte, o comunque ne gioirai.

Sì, certo che anche prima di allora mi ero accorta che i social erano pieni di gente che si augurava – meglio: dichiarava di farlo – la morte mia o di altra gente che, senza mai averla incrociata, riteneva fosse il più grave problema del mondo. Ma che il mondo sia pieno di scemi non mi pare una notizia.

La questione cui mi riferisco non attiene a Brocco81 che dichiara di sperare che Tizio di cui ha letto un articolo con cui non è d’accordo muoia tra atroci sofferenze. La questione cui mi riferisco riguarda Giorgia Meloni, per dire, e una sua dichiarazione ovvia e garbata sulla morte di Michela Murgia; riguarda lei, e tutti quelli che ieri si sono precipitati sui social a dirle che schifo, come potete parlare di cordoglio dopo averla attaccata.

Michela Murgia ha fatto della sua vita una militanza e quindi è – inevitabilmente, e direi persino con una certa voluttà – entrata in collisione con chi avesse idee diverse dalle sue. L’ha fatto da che ha avuto una voce pubblica, l’ha fatto come scelta identitaria. Se ogni tanto ricordava Skunk Anansie non era perché, per il cancro, si era rasata a zero: era per quel titolo di canzone del quale sembrava aver fatto un manifesto di vita. “Yes it’s fucking political”.

Si può non trovare sconvolgente e ingiusto che una persona muoia a cinquantun anni? Veramente la polemica politica significa, secondo coloro che ieri si indignavano vai a sapere se a scopo di cuoricini o per autentica stolidità, desiderare la morte dell’avversario, o comunque essere contenti quando avviene?

Tutto ciò che osserviamo e valutiamo non riguarda – non serve uno specialista viennese per capirlo – l’oggetto dell’osservazione, ma noi. Quando pensi che chi non apprezza il lavoro di qualcuno ne desideri la morte, mi stai svelando che così succede a te: tutto ciò che pensiamo dice qualcosa di noi. Anche quando abbiamo il pudore di non scrivere coccodrilli che raccontino quanto il morto ci stimasse, la morte degli altri riguarda noi.

Durante le vacanze di Natale del 2021 Michela Murgia è stata ricoverata con non so quanti litri d’acqua nei polmoni, ed era una recidiva d’un tumore precedente, una recidiva i cui sintomi aveva da un anno senza andare a farsi vedere, ed è stato subito chiaro a chiunque che sarebbe morta, perché un cancro che lasci prosperare per un anno o più poi mica riesci più a curarlo.

Non riguardava certo lei, il mio sconvolgimento della sera in cui mi raccontarono questa vicenda. Non riguardava certo una scrittrice che non conoscevo privatamente e con le cui posizioni pubbliche non ero praticamente mai d’accordo.

Riguardava me che detesto andare dai medici; riguardava me che ero nata quattro mesi dopo di lei e la vita mi stava dicendo che era un’età buona come un’altra per morire; riguardava – soprattutto – il guaio d’essere la migliore.

Nell’ampio campo intellettuale di coloro le cui idee non mi convincono, Michela Murgia era evidentemente l’unica in grado di argomentare un pensiero. E quindi, inevitabilmente, circondata di emule goffe, di ancelle volenterose, di allieve che ripetono a memoria la poesia di Natale ma cui manca il guizzo.

Quando mi avevano raccontato che l’avevano ricoverata perché l’acqua nei polmoni era così tanta che non respirava più, ma che prima di allora era un anno che vomitava e dimagriva e insomma aveva sintomi evidenti, la prima cosa che avevo chiesto era stata: ma a cosa servite voi amiche, se non l’avete portata in ceppi da un medico pure se non ci voleva andare? Mi era stato risposto: eh, ma ci aveva detto che era andata.

Il rapporto di Michela Murgia con chi la circondava è stata, qualche mese fa, la stessa Michela Murgia a svelarlo, nell’intervista ad Aldo Cazzullo, in un passaggio che nessuno ha notato, impegnati com’erano tutti i lettori a concentrarsi sulle cose più da card di Instagram, il fascismo della Meloni e altre titolabilità.

Cazzullo le chiede di Cossiga, Murgia risponde così: «Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli, che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo incalzò. E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei amici… Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”. È un po’ come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha diciassette…”».

Non sarà stata né la prima né l’ultima donna di potere, né la prima né l’ultima ape regina che ha con i propri affetti un rapporto non paritario; ma mi sembrò molto interessante che lo rivendicasse pubblicamente: non è una cosa che facciamo, noialtre abituate alla mistica della femminilità e al potere esercitato di nascosto e con sotterfugi seduttivi. E invece: ci sono diciassette persone che allo Strega votano quello che dico io, figuriamoci se mi contraddicono quando non voglio andare dal medico.

Quella sera d’un anno e mezzo fa, ho iniziato a chiedermi a cosa serva, e non ho più smesso. A cosa serve essere carismatiche, se poi quel che te ne viene è che nessuno di quelli che ti stanno intorno osa contraddirti, neanche quando si tratta di salvarti la vita? A cosa serve essere di successo, se le classifiche di vendita non possono renderti immortale? A cosa serve essere perentorie, se poi ti lasci morire per incuria?

Nell’anno e mezzo trascorso tra quel ricovero d’urgenza e la sua morte, giovedì sera, Michela Murgia tutto ha fatto tranne che lasciarsi morire. È stata un’agonia piena di vita, come se avesse voluto rendere più denso il tempo che le restava, per compensare quello di cui si era distrattamente privata (scusate, metto subito via il kit della psicanalista dilettante).

È andata alle sfilate e alle fiere letterarie, ha instagrammato la chemioterapia e le canzoni coreane, ha scritto quattro libri – due già usciti, l’ultimo consegnato mercoledì sera – e non so quanti podcast, dato interviste, fatto servizi fotografici vestita in haute couture. Non si è mai dimenticata di vivere, e io la osservavo senza capire.

Come fa ad avere così voglia di esserci, con tutta quella sofferenza? Come fa a cercare così disperatamente di dare un’immagine di forza, quando sa che la fine è nota? Non sono mai passati più di tre giorni senza che parlassi di lei, di una scrittrice che non leggevo e non mi stava simpatica e di cui non m’ero mai interessata prima che s’ammalasse, e di quello che mi sembrava svelasse di me, di noi, di quell’inaccettabile ingiustizia che è la morte.

Michela è contenta di questo anno e mezzo, mi giuravano le persone che le volevano bene, ha fatto tante cose, e io non riuscivo a venirne a capo: io che chiedo la morfina se ho un giradito, e lei che aspetta di chiudere l’ultimo libro prima di farsi sedare, lei che ha ancora voglia di baccagliare con la Meloni, con Figliuolo, con le lingue romanze, mentre è in chemioterapia.

Com’è possibile, chiedevo a chiunque fosse disposto ad ascoltarmi, che abbia questa voglia, questa forza, questa energia sovrumana, mentre sta morendo. Una volta una sua amica mi ha risposto «ma stiamo tutti morendo», e ho pensato che brutta fatica dovesse essere, essere l’ape regina in mezzo a gente che si esprime per frasi fatte e banalità trite. O è una forma di allenamento, se sei circondata da gente intellettualmente non all’altezza ti alleni anche a saper parlare al grande pubblico?

Una cosa che ha creato, Michela Murgia con quella vetrina sulla sua malattia tenuta spesso accesa, è stata la moltiplicazione dei funerali da viva. Ogni giorno c’era qualcuno che la criticava o la difendeva, ma che comunque riteneva di dire cosa pensasse delle sue feste in bianco e delle sue idee sulla famiglia.

Giorni fa ho visto un video di uno degli indignati da cordoglio degli antipatizzanti, uno di quelli che hanno passato l’ultimo anno a dire «come vi permettete di piangere la morte di una le cui parole vi dispiacevano da viva, ipocriti». Era un video involontariamente esilarante, in cui questo tizio spiegava che lui e la Murgia non si stavano simpatici da quando lei aveva stroncato un libro di lui, e lui aveva risposto con un articolo stronzo. Già rispondere a una stroncatura sarebbe imbarazzante, ma l’autoritratto poi peggiorava.

Questo interessante incrocio di ego ipertrofico e mancanza assoluta di senso del ridicolo spiegava d’essere a un certo punto stato in collegamento con un programma nel cui studio era presente lei, e d’aver percepito dai di lei sguardi che, ebbene sì, la Murgia stava dalla sua parte rispetto a una qualche polemichetta minore.

In seguito a questo sguardo (che non si era affatto immaginato, cosa andate a pensare), egli non era dunque oggi come questi ipocriti, nel fare il suo bravo elogio funebre alla Murgia ancora viva; era invece, il guardato, uno legittimato a dispiacersi dell’imminente decesso, e persino pentito d’una frase scritta nell’articolo dell’epoca. Frase che ben pensava di svelarci, per farsi stimare vieppiù: «La falsa magra Michela Murgia». Che brutta fatica, con detrattori il cui equipaggiamento dialettico è questo qui.

L’altro giorno, su Instagram, Michela Murgia aveva citato, rispondendo a chi le chiedeva se le cure stessero funzionando, una frase che non conoscevo di Cesare De Michelis. Faceva così: posso stare meglio, ma non posso più stare bene.

È stata l’ultima volta in cui mi sono straziata osservando quell’oblò sulla sua vita che aveva tenuto aperto in questo anno e mezzo, l’ultima volta in cui mi sono chiesta a cosa servisse tutto quanto, e in cui non mi sono saputa rispondere.