Ombre russePerché l’ingresso di Moldova, Ucraina e Georgia nell’Ue non sarà così semplice

Secondo la Commissione europea, a causa della pesante influenza russa, il processo di adesione di Kyjiv, Tbilisi e Chișinău richiederà ancora tempo e soprattutto un impegno costante da parte dei candidati per rispettare i criteri politici, economici e sociali per far parte dell'Unione

LaPresse

L’allargamento dell’Unione è tornato in cima all’agenda dei Ventisette da quando, due anni e mezzo fa, la Russia di Vladimir Putin ha lanciato la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Da allora, estendere il club europeo è visto a Bruxelles come un imperativo strategico per stabilizzare il continente e come strumento geopolitico per contrastare l’aggressività neo-imperialista dell’inquilino del Cremlino. D’altra parte, per i nove Paesi candidati l’ingresso nell’Ue è visto come un’ancora di salvezza, sinonimo di prosperità economica e sicurezza. Ma su alcuni di questi Stati si stanno allungando le ombre lunghe dell’influenza di Mosca, dove non si accetta che i popoli del cosiddetto spazio post-sovietico possano decidere autonomamente la propria collocazione internazionale.

Le interferenze del regime putiniano sono particolarmente visibili in Georgia e Moldova, oltre, naturalmente, all’Ucraina. Le preoccupazioni di Bruxelles al riguardo sono contenute nelle relazioni su ciascuno dei Paesi candidati (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Serbia e Turchia, oltre ai già citati, cui si aggiunge la Macedonia del nord in qualità di potenziale candidato) che costituiscono il «pacchetto sull’allargamento 2024» presentato mercoledì 30 ottobre dall’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell e dal commissario uscente all’Allargamento e al vicinato Olivér Várhelyi. 

Nelle parole del capo della diplomazia Ue, quella di entrare nella famiglia europea «è una scelta strategica», e l’indicazione «più significativa» dell’orientamento strategico dei Paesi candidati è rappresentata dal grado di «allineamento con i valori dell’Ue, a partire dallo Stato di diritto, e con la politica estera e di sicurezza comune», che fissa le priorità dell’Unione in termini di relazioni esterne. In altri termini, più uno Stato candidato è “allineato” alle posizioni di Bruxelles (come espresse proprio dall’Alto rappresentante) in materia di politica estera, più semplice dovrebbe essere il suo percorso di integrazione. Contemporaneamente, devono esserci anche le basi strutturali per la vita democratica nazionale (vedi il focus su diritti fondamentali e Stato di diritto) nonché dei fondamentali economici accettabili. 

Ucraina
Secondo la Commissione, l’Ucraina – che ha fatto domanda per entrare in Ue quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione su larga scala nel febbraio 2022 – «ha mostrato considerevole resilienza e impegno nel suo cammino europeo», portando avanti una serie di importanti riforme strutturali per mettersi al passo con i Ventisette. Il capo della diplomazia comunitaria l’ha messa in questi termini: «Gli ucraini stanno combattendo due battaglie allo stesso tempo», ha dichiarato Borrell, «una sul campo di battaglia, una vera e propria guerra, e la seconda per portare avanti le riforme necessarie a diventare uno Stato membro». 

Kyjiv sta seguendo le raccomandazioni che riceve da Bruxelles sui vari fronti intorno a cui si sviluppano i sei cluster dei negoziati di adesione: va bene sulla democrazia e lo Stato di diritto (anche se permangono delle lacune in fatto di tutela dei diritti umani), ad esempio, e sta migliorando sul contrasto alla corruzione e sull’indipendenza della magistratura (anche se la strada da percorrere resta ancora lunga). Quanto all’economia, l’ex repubblica sovietica sconta il pesante prezzo di due anni e mezzo di guerra, e non sembra ancora pronta per l’integrazione nel mercato unico. Il più alto livello di «allineamento» si registra invece sulla politica estera e di sicurezza: nel novantacinque per cento dei casi, le posizioni di Kyjiv e di Bruxelles in materia di relazioni esterne sono concordi, a partire naturalmente dall’opposizione alla Russia di Putin. 

Moldova
Proprio sull’eccessiva vicinanza a Mosca rischiano invece di giocarsi la propria prospettiva europea (loro malgrado) altri due Paesi candidati. Uno di questi confina con l’Ucraina: è la Moldova, dove lo scorso 20 ottobre i cittadini hanno votato (oltre che al primo turno delle presidenziali) in un referendum che, per un soffio, ha sancito l’introduzione in Costituzione dell’obiettivo dell’adesione all’Ue. Le interferenze russe sono state pesanti e ampiamente denunciate, ancora prima dell’appuntamento elettorale, dalle autorità moldave, che hanno scoperto un ampio schema di frode elettorale che avrebbe coinvolto circa centotrentamila elettori, pagati con quasi trentasei milioni di euro per votare «no». Ma alla fine ha vinto il «sì» per un margine decisamente esiguo, lo 0,7 per cento, grazie soprattutto al voto della diaspora. 

Nel piccolo Stato balcanico, incastonato tra l’Ucraina e la Romania, le massime cariche politiche sono in realtà filo-occidentali. Il governo, guidato dal 2021 da Dorin Recean (indipendente d’area del Partito di azione e solidarietà), ha messo sempre più distanza tra Chisinau e Mosca fin dall’inizio dell’invasione del febbraio 2022 da parte di quella stessa Russia che, nella regione separatista della Transnistria (un lembo di terra riconosciuto internazionalmente come moldavo al confine con l’Ucraina), mantiene soldati, armi e munizioni in uno dei «conflitti congelati» che costellano lo spazio post-sovietico e che impediscono, di fatto, ai Paesi che li «ospitano» di entrare nella Nato. 

Anche la presidente della Repubblica Maia Sandu, un’altra indipendente appoggiata dal Pas ed ex economista della Banca mondiale, è orgogliosamente pro-Ue, tanto che aveva convocato il referendum nella speranza di ottenere un plebiscito per il sì e ha invece portato a casa una vittoria risicatissima. E, nel secondo turno delle presidenziali tenutosi domenica (3 novembre), ha sconfitto per 55,41 a 44,59 per cento lo sfidante filo-russo Alexandr Stoianoglo, conquistando così un secondo mandato con il quale intende avviare irreversibilmente la Moldova sul cammino per l’ingresso nell’Unione. 

Sandu e Recean dovranno fare di tutto per mantenere il Paese sulla traiettoria che porta Chisinau in Europa, contro le interferenze e gli attacchi ibridi di Mosca. La redde rationem arriverà eventualmente nella prima metà del 2025, quando i moldavi si recheranno alle urne per rinnovare il parlamento e dunque il governo. Per ora, il feedback di Bruxelles è positivo: «La nuova strategia per la sicurezza nazionale, adottata nel dicembre 2023, identifica la Russia come l’origine delle maggiori minacce alla sicurezza della Moldova, e il processo di adesione all’Ue come strategicamente importante per rafforzare la sicurezza e la resilienza nazionale», si legge nella relazione sul Paese balcanico. L’allineamento di Chisinau con la Pesc (misurata sulle dichiarazioni di Borrell e sulle decisioni del Consiglio riguardo alle sanzioni contro Mosca) è salito al novanta per cento a settembre 2024, anche se l’esecutivo comunitario sottolinea che «serve del lavoro aggiuntivo per migliorare la solidità dell’implementazione» delle misure restrittive. 

Georgia
Dove invece è andata peggio è in Georgia, un’altra ex repubblica sovietica del Caucaso meridionale che affaccia sul Mar Nero e confina con Russia, Azerbaigian, Armenia e Turchia. Alle elezioni dello scorso 26 ottobre, il partito di governo Sogno georgiano (al potere dal 2012) avrebbe vinto quasi due terzi dei seggi parlamentari, in un voto che però, secondo gli osservatori locali e internazionali, è stato caratterizzato da diffuse, gravi e sistematiche irregolarità e violazioni procedurali, che in molti casi sono sfociate addirittura in aggressioni verbali e fisiche. Le opposizioni, capeggiate da un’altra presidente della Repubblica decisamente filo-occidentale, Salomé Zourabichvili, hanno denunciato il «furto» delle elezioni e stanno chiedendo l’annullamento del voto, che reputano illegittimo, e la sua ripetizione sotto un attento monitoraggio internazionale. 

Sogno georgiano è di fatto una macchina per il mantenimento del potere personale dell’oligarca filo-russo Bidzina Ivanishvili, che sta cercando di (ri)portare Tbilisi nell’orbita della Russia, dove attualmente risiede. Mosca, del resto, ha le proprie truppe anche in Georgia: nelle autoproclamate repubbliche dell’Abcasia e dell’Ossezia del sud, due regioni separatiste che il Cremlino ha «difeso» dall’esercito georgiano invadendo lo Stato caucasico nel 2008. 

Il percorso europeo della Georgia è iniziato nel marzo 2022, insieme a quello della Moldova. A dicembre 2023 entrambi i Paesi hanno ottenuto ufficialmente lo status di candidato, ma da allora le strade di Tbilisi e Chisinau si sono divise: mentre l’ultima, come detto, sembra essersi incamminata più convintamente lungo il sentiero che porterà (in un numero imprecisato di anni) a varcare le porte dell’Unione, la prima appare ora più in bilico che mai. Dopo che, la scorsa primavera, Sogno georgiano ha forzato l’approvazione parlamentare di due provvedimenti legislativi denunciati dalle opposizioni, dalla società civile e dai partner internazionali come liberticidi (una legge sugli «agenti stranieri» che colpisce le entità finanziate dall’estero e una sulla famiglia che discrimina la comunità Lgbtq+, entrambe ricalcate sul modello di leggi in vigore in Russia), Bruxelles ha sostanzialmente congelato il processo di adesione della Georgia, sospendendo anche l’erogazione dei fondi comunitari a Tbilisi. 

Nella relazione sull’allargamento, la Commissione rileva che l’allineamento della Georgia con i Ventisette in ambito Pesc è piuttosto basso: quarantaquattro per cento nel 2022, cinquanta nel 2023 e quarantanove lo scorso settembre. Ciononostante, Tbilisi sembrava su un percorso di allineamento sempre maggiore con le posizioni dell’Ue, almeno fino alle elezioni dello scorso 26 ottobre. Adesso, il futuro del piccolo ma strategico Paese caucasico è più incerto che mai.

Riuscirà a non venire inghiottito dall’ingombrante vicino russo? Sprofonderà in una nuova fase di tensioni e violenze politiche? Cosa accadrà ora è una domanda che dovrebbe tenere Bruxelles con il fiato sospeso. Sempre che, beninteso, la presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen voglia mantenere l’impegno, preso in questi mesi, di guidare il prossimo Collegio come una «Commissione dell’allargamento». Dal canto loro, quegli Stati dell’Europa centro-orientale che vent’anni fa sono entrati nell’Unione hanno le idee molto chiare sulla necessità strategica di allargare ancora il club a dodici stelle, per contrastare i disegni imperialisti del nuovo zar Vladimir Putin.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club