«Sei città capoluogo di regione: da tre a tre, a sei a zero per noi. Sette regioni: da uno a sei per loro, a tre a quattro. Alle politiche tra Pd e FdI c’erano otto punti di distanza alle europee, sono diventati quattro. Il nostro 2024». È un messaggio del Nazareno che circolava ieri sulle chat del Partito democratico. Sì, con le vittorie in Emilia-Romagna e Umbria per il partito di Elly Schlein il 2024 finisce bene. Le sconfitte e gli autogol, dalla Basilicata alla Liguria, sono digerite. Il Pd torna a grandi percentuali nelle Regioni centrali. In Emilia-Romagna riesce a saldare il tradizionale pragmatismo riformista con l’energia più di sinistra di Schlein, anche se in una figura come Michele de Pascale è chiaramente il primo aspetto a predominare.
L’Emilia-Romagna si conferma come una Regione non contenibile, una volta sgonfiatasi la bolla salviniana che aveva fatto tremare Stefano Bonaccini alle regionali precedenti. La progressiva caduta della Lega avrà qualche ripercussione tra gli alleati di governo? È probabile. Poi è vero che la destra non aveva un Marco Bucci, ma una incolore Donatella Tesei, e anche questo conta, ma insomma il Pd è davvero in campo e la sua leader oggi è indiscussa: i critici della Schlein adesso saranno meno nervosi.
Il trionfalismo del giorno dopo è dunque giustificato. Purché non diventi una linea, un abito mentale, un cliché arrogante, o un’illusione del tipo “stiamo arrivando”. Ha detto bene la segretaria: «La strada è lunga». È una frase che dovrebbero scrivere sopra il portone del Nazareno, sulle saracinesche dei circoli, sulla carta intestata del partito.
«La strada è lunga»: e non solo perché Giorgia Meloni è ancora forte, più la persona che l’Armata Brancaleone dei Fratelli d’Italia (che infatti vanno così così quando non c’è lei), ma perché ancora al Pd manca il contesto per vincere.
Cos’è questo “contesto”? Per prima cosa, è evidente che persista un’insufficienza territoriale del Pd: se invece che in Emilia-Romagna e Umbria si fosse votato in Veneto e Calabria oggi probabilmente scriveremmo altre cose. E dunque il Pd vale oggi, al massimo, il venticinque per cento (ma Swg dice 22,1). Nella migliore delle ipotesi siamo al livello del Pd di Pier Luigi Bersani (2013): bene, ma non benissimo. Con quella cifra fai una buona opposizione, ma non spicchi il volo.
Schlein lo ha anche detto qualche volta, l’obiettivo è diventare il primo partito, cioè arrivare e superare il trenta per cento. Solo una dimensione di questo tipo può mettere in moto una corrente di opinione e un processo unitario che, insieme, possono cambiare il corso politico italiano. «Vocazione maggioritaria» voleva dire questo.
Schlein ha ripreso molti voti che con la crisi del renzismo, e nella notte di Nicola Zingaretti ed Enrico Letta, i dem avevano perduto ma il discorso è sempre quello: manca qualcosa. Stante le dimensioni storiche della sinistra, arrivare al trenta per cento implica prendere voti alla destra, il che significa avere idee che convincano oltre i tuoi. Ed è questo quello che la leader del Pd e questo gruppo dirigente devono ancora dimostrare di saper fare.
L’idea di appaltare ad altri il compito di penetrare nell’elettorato moderato che oggi vota per il centrodestra è pigra e burocratica, è la rinuncia a diventare un grande partito nazionale di governo. E qui c’è un’altra questione, quella delle alleanze.
Il Pd dovrà fare i conti con la crisi strutturale del Movimento 5 stelle che lo porterà a essere un piccolo cespuglio non in grado di prendere voti né dall’astensionismo né tantomeno dalla destra; oppure a tirarsi fuori dal cosiddetto campo largo, e allora arrivederci e grazie. In entrambi i casi il Pd potrà contare sempre meno – e per fortuna – sul partitino di Giuseppe Conte. Per fortuna, nel senso che il voto di domenica ha dato un colpo all’antipolitica: da Giuseppe Conte a Matteo Salvini a Stefano Bandecchi.
E poi c’è il problema dei moderati. Adesso il Pd ha la forza e l’autorevolezza per accogliere organicamente nel centrosinistra Matteo Renzi e per stimolare Carlo Calenda, Luigi Marattin e chi più ne ha più ne metta a entrarvi, con la loro autonomia s’intende. Si tratta perciò di abolire l’incredibile fatwa contiana che è costata la Liguria e di reprimere altri atteggiamenti settari e altezzosi. In Campania, e non solo in Campania, quei voti servono.
Il tempo c’è per lanciare idee nuove che non siano solo la solita polemica con il governo sui soldi non stanziati per la sanità o altro. Dopo l’euforia di un giorno c’è una «strada lunga» da percorrere, e bisognerà farlo con la politica e senza arroganza.