Questo è il secondo di tre articoli di Carole Hallac dedicati ai fenomeni di antisemitismo nelle università americane. Qui il primo articolo
Secondo Shabbos Kestenbaum, un giovane recentemente laureato a Harvard, gli studenti vengono indottrinati con idee antisioniste e antisemite direttamente nelle aule universitarie. «Quando i professori usano il loro curriculum come strumento per promuovere un’agenda politica, quando annullano le lezioni per incoraggiare gli studenti a partecipare a manifestazioni contro Israele, e quando affermano come dato di fatto che Israele rappresenta il massimo avamposto dell’imperialismo occidentale, è naturale che gli studenti inizino a credere alla loro narrazione».
Già nel 2004, è uscito un documentario, “Columbia Unbecoming,” che raccoglieva le testimonianze di studenti della Columbia che si sono sentivano intimoriti e attaccati da professori come ripercussione per le loro opinioni pro-Israele. Al centro della controversia era Joseph Massad, un professore che insegna tuttora a Columbia nonostante una petizione di oltre quarantamila firme ne chiedesse la rimozione in seguito a un suo articolo pubblicato dopo il 7 ottobre, in cui giustificava le azioni di Hamas.
Docenti e membri della facoltà con vedute pro-israeliane o neutrali preferiscono invece non esporsi per evitare ripercussioni sulle loro carriere. Il professore della Columbia Shai Davidai, uno dei pochi accademici impegnati nella lotta contro l’antisemitismo nei campus, spiega il fenomeno: «Esprimere le proprie opinioni comporta conseguenze sociali e professionali. Il costo sociale, basato sulla mia esperienza, è che le persone smettono di parlarti. Nessuno vuole prendere un caffè con te, ti salutano a malapena. Tuttavia, il costo reale è quello professionale».
Il professore spiega che quando si ambisce a una promozione o si desidera proporre un nuovo corso, i colleghi ne discutono e poi votano in assemblea. In alcune università, il voto deve essere unanime, in altre, serve una semplice maggioranza. «Ecco perché molti professori hanno paura di parlare – continua – non solo riguardo al conflitto israelo-palestinese, ma anche su molte altre questioni, a meno che non siano certi che la maggioranza delle persone intorno a loro sia d’accordo. Questo crea un incentivo a conformarsi all’opinione prevalente».
Le implicazioni riguardano anche gli inviti a partecipare a conferenze in altri atenei e la pubblicazione di articoli, che devono essere valutati dai colleghi. Davidai, ora etichettato come figura controversa, non è stato più invitato a tenere seminari in altre istituzioni e si trova isolato nella sua battaglia. «Le cose non stanno cambiando; anzi, le persone sono ancora meno disposte a parlare ora», afferma. «Non è sorprendente, considerando che non si sono fatti sentire nemmeno dopo gli eventi del 7 ottobre, quando hanno assistito a violenze sessuali, omicidi e torture. Se non hanno parlato quando gli studenti gridavano “morte ai sionisti”, non inizieranno ora a farlo. Questo rappresenta, in un certo senso, la bancarotta morale dell’accademia».
Davidai descrive la purga nel sistema accademico come una rimozione sistematica di voci dissidenti che vengono gradualmente sostituite da professori con posizioni conformiste, e non solo per questioni relative al Medio Oriente. «In accademia, le persone con opinioni considerate “controverse” hanno meno probabilità di essere ammesse a un programma di dottorato, di trovare lavoro, di ottenere l’incarico di ruolo e, una volta ottenuti, di essere promosse. Se osservi qualsiasi questione dibattuta negli Stati Uniti, troverai molta più diversità di opinioni al di fuori dell’accademia anche su temi come l’aborto, il cambiamento climatico, le leggi sulle armi, il fracking e l’immigrazione. È molto improbabile ottenere una gamma diversificata di opinioni, specialmente nelle scienze umane».