Wind of change Qual è il futuro del giornalismo (enogastronomico)?

Molto più dei social media, saranno la diffusione e l’uso dell’intelligenza artificiale a influenzare le sorti del giornalismo, incluso quello enogastronomico. Gli editori dovranno esplorare nuove modalità per veicolare i contenuti, collaborando tra loro – o con l’IA – per garantire visibilità, autorevolezza e sostenibilità economica alle loro testate

Anna Prandoni, Massimiliano Tonelli, Pietro Fasola, Stefania Radman
Anna Prandoni, Massimiliano Tonelli, Pietro Fasola, Stefania Radman. Foto di Alessio Cannata

Prima di ChatGPT – l’assistente virtuale basato sull’intelligenza artificiale, capace di comprendere e generare linguaggio naturale (umano) in tempo reale – il giornalismo enogastronomico ha vissuto una lenta ma inesorabile trasformazione, che ha coinvolto principalmente la natura dei contenuti. Una narrazione elitaria e critica, incentrata su guide e recensioni, ha lasciato il posto a un racconto più democratico e riflessivo, che integra storie di territorio, sostenibilità e cultura del cibo. Nel frattempo, i social media hanno dato visibilità a chef e influencer, mentre le piattaforme digitali hanno spinto la creazione di contenuti immediati e visivi, spesso basati su clickbait (strategia di adescamento volta ad aumentare il traffico web – e dunque le rendite pubblicitarie – tramite titoli sensazionalistici o accattivanti).

E mentre tentiamo di rispondere alla saturazione del mercato digitale attraverso modelli a pagamento e approfondimenti di nicchia, ci domandiamo quale sarà il futuro dei giornali adesso che l’IA inizia a bypassare il caro vecchio Google, offrendo agli utenti risposte dirette e personalizzate senza obbligarli a navigare tra una lista di link. Ne abbiamo parlato all’ultima Tavola Spigolosa con Massimiliano Tonelli, direttore editoriale di CiboToday, Pietro Fasola, brand ambassador Triple “A”, e la giornalista di Varese News e Radio Popolare Stefania Radman.

«Sta cambiando il modo in cui veicoliamo i contenuti, a prescindere dall’ambito. Il resto sono dettagli», osserva Tonelli. Per decenni abbiamo fatto domande al nostro motore di ricerca preferito ottenendo come risultato una serie di link. Domani – in realtà già oggi – la risposta sarà diretta. «I nostri contenuti, siano essi enogastronomici o di altra natura, rischiano di non essere più fruiti attraverso un mediatore (come Google), diventando parte integrante di quella risposta in quanto pubblici. Il tutto, senza alcun ritorno economico per chi quei contenuti li ha creati». Perché più traffico genera un sito, maggiore è la probabilità di monetizzare attraverso pubblicità, partnership, vendite o abbonamenti. D’altra parte, se non compriamo più i giornali, in qualche modo dovranno pur mantenersi.

Se evitare le sponsorizzazioni è quasi impossibile, soprattutto per le testate non generaliste, questo non significa non doverle gestire con l’attenzione che meritano, perché vorrebbe dire minare irrimediabilmente la fiducia del lettore e, in parte, la credibilità dell’intero settore. Un’operazione assai delicata, da cui emerge la capacità del giornalista di leggere e interpretare i fatti in chiave costruttiva, creando un contesto. Non è questa la definizione di critica? Sebbene nel linguaggio corrente questa parola sia spesso usata come sinonimo di giudizio sfavorevole, sarebbe più ragionevole declinarla come facoltà di esaminare e valutare l’operato dell’uomo per distinguere, selezionare e anche scegliere di cosa parlare e di cosa no.

Una decisa stroncatura è per certi versi più semplice da scrivere, rispetto agli approfondimenti sulle dinamiche potenzialmente trasversali al panorama enogastronomico. «Ma un ristorante non è un oggetto standardizzato di cui si può parlare male in modo così agevole. Un’esperienza gastronomica non è assimilabile a un libro o un film, perché si tratta di un prodotto culturale oggettivamente irripetibile, il cui valore dipende da fattori difficili da replicare esattamente», sottolinea Massimiliano Tonelli, e noi con lui. «Se invece la critica distruttiva diventa un esercizio di stile orientato al pamphlet, il focus si sposta dal contenuto alla forma, ed è un altro discorso».

Se il giornalismo enogastronomico si espone con maggiore facilità al conflitto d’interesse, le piattaforme di brand journalism – spazi digitali creati dalle aziende per diffondere contenuti informativi utilizzando tecniche giornalistiche – sono vocate per definizione alla trasparenza. «Essendo venditori, non possiamo essere giornalisti imparziali, né pretendiamo di esserlo», conferma Pietro Fasola. L’obiettivo è costruire una relazione autentica con il pubblico, promuovendo il valore del marchio in modo indiretto, eventualmente coinvolgendo professionisti esterni per superare il concetto di filiera e allargare il discorso a temi più ampi.

E questo è solo un esempio di come la professione possa evolversi al di fuori degli schemi tradizionali, adattandosi alle esigenze del pubblico e del mercato senza perdere autorevolezza. Perché l’esplorazione di nuovi modelli narrativi e canali di comunicazione può arricchire il ruolo del giornalista, ampliandone le possibilità di racconto e, magari, anche il target, a patto di volersi mettere alla prova. E Varese News lo ha fatto, dimostrando la possibilità di conciliare un’informazione profondamente radicata nel territorio con l’uso di strumenti digitali capaci di amplificarne la portata.

L’elemento chiave di questa evoluzione è stato indubbiamente il Festival Glocal, un evento dedicato al giornalismo digitale con una prospettiva locale e globale, che ogni anno offre una serie di incontri, workshop, conferenze e momenti di confronto su temi come l’innovazione nel giornalismo, l’uso delle nuove tecnologie, l’intelligenza artificiale e le sfide dell’informazione contemporanea. Un esempio di sperimentazione che dimostra come la creatività e la visione siano armi fondamentali per far fronte ai mutamenti di un ecosistema così volatile. Del resto, sono proprio i giornalisti locali che non passeranno mai di moda, perché vedono sempre ciò che scrivono. «E in tutto ciò che è esperienziale, il giornalista avrà sempre una marcia in più dell’intelligenza artificiale generativa (come ChatGPT), magari su canali diversi», sostiene speranzosa Stefania Radman.

Questo scenario apparentemente apocalittico non può che aprire nuove strade. Con il superamento del modello di remunerazione basato sui clic, probabilmente gli editori diventeranno parte integrante dei processi decisionali dei modelli di IA, contribuendo come fonti autorevoli alla selezione dei contenuti. Oppure si uniranno su piattaforme di contenuti editoriali on-demand – una sorta di equivalente giornalistico di Netflix – dove gli utenti abbonati potrebbero accedere a notizie, approfondimenti, reportage, podcast e video esclusivi, curati da professionisti del settore. Perché le alternative al traffico web e alla pubblicità esistono, basta tenere la mente aperta.

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