Tanto al ristorante quanto in enoteca, i consumatori stanno sviluppando una nuova consapevolezza. Qualche anno fa i neofiti del vino si sforzavano di percepire sentori di carruba birmana facendo roteare i calici, e si orientavano sulle referenze più costose per celebrare le occasioni speciali, limitandosi ad abbinare il bianco al pesce e il rosso alla carne. Oggi sanno che il vino è alcol (comportandosi di conseguenza), sono meno interessati ai tecnicismi e amano sperimentare nuove etichette. Il pairing passa in secondo piano ai fini della scelta, mentre acquista importanza la storia che si cela dietro la bottiglia. Ne abbiamo parlato all’ultima Tavola Spigolosa con Cecilia Longo, export & marketing manager dell’Enoteca Longo, Andrea Terraneo, presidente di Vinarius (Associazione Enoteche Italiane), lo chef di Innocenti Evasioni Tommaso Arrigoni e la giornalista enogastronomica Eugenia Torelli.
«Il cliente è sempre più propenso a bere meno ma meglio», conferma Tommaso Arrigoni, che nel suo ristorante registra una tendenza già evidente sul mercato internazionale. L’inflazione, la diffusione di stili di vita più salutari e le sanzioni sempre più severe contro chi guida in stato di ebbrezza stanno favorendo la rinascita delle small size e soprattutto l’incremento delle vendite al calice, in linea con la crescente curiosità dei giovani consumatori, alla ricerca di nuovi terroir e cantine emergenti. In questo scenario, diventa ancor più rilevante la figura del sommelier, che guida con sapienza questa sete di novità, consigliando il vino che meglio si abbina ai gusti e ai piatti dei commensali, potenzialmente inconciliabili.
Una responsabilità condivisa con l’enotecario, ambasciatore dei valori e dei messaggi racchiusi nelle bottiglie. Il suo compito va ben oltre il semplice suggerimento: deve essere un abile cantastorie, capace di interpretare i desideri inespressi dei suoi clienti, adattandosi a esigenze e palati sempre diversi. E questo significa anche trovare le parole giuste. «Rispetto al passato, si usano molti meno tecnicismi», sostiene Cecilia Longo. In fin dei conti, quando si è seduti a tavola, sono le emozioni del momento ad avere la meglio sull’analisi sensoriale. E da questo punto di vista i social possono essere degli ottimi alleati, tanto per gli enotecari quanto per le aziende, che – complice l’ascesa dei vini non convenzionali – stanno affinando la nobile arte dello storytelling.
«In questi anni è cambiato il linguaggio, ma è cambiato anche il vino», sottolinea Andrea Terraneo. Non si tratta solo di comunicare meglio con un pubblico sempre più attento e informato, ma anche di intercettare le nuove tendenze del mercato, in rapida evoluzione. E ciò che funziona in un contesto potrebbe non risuonare nello stesso modo a pochi chilometri di distanza.
E nel resto del mondo? Come cambia l’approccio alla comunicazione del vino? «C’è una differenza sostanziale tra un Paese produttore e un Paese importatore», osserva Eugenia Torelli. Il primo tende a focalizzarsi sul prodotto, con i dovuti approfondimenti tecnici, trascurando però un aspetto essenziale: «La comunicazione va adeguata all’audience». E così non è raro che l’enfasi sulle peculiarità del terroir e sulle tecniche di vinificazione finisca per oscurare le aspettative di consumatori meno legati al contesto d’origine di un vino o di un vitigno. Un atteggiamento che rischia di creare un divario significativo tra ciò che si vuole raccontare e ciò che le persone sono realmente interessate ad ascoltare.
Un problema analogo si manifesta nell’approccio alla comunicazione del cibo, e in particolare del vino, verso le nuove generazioni, apparentemente poco appassionate. Un gap tra “domanda e offerta” che probabilmente è dovuto dall’utilizzo di un linguaggio calibrato su un target troppo maturo, in tutti i sensi. Forse la sfida più grande sta proprio nella capacità di trovare parole nuove e soprattutto nuove storie da raccontare, lontane dal cliché del piccolo artigiano devoto alla sostenibilità. C’è un grande bisogno di uscire dagli schemi, per avvicinare e incuriosire – gradualmente – il giovane pubblico, senza per questo essere superficiali o sacrificare la verità. Perché il rischio è quello di banalizzare il lavoro di chi si dedica con passione, stagione dopo stagione, a realizzare un’opera unica e irripetibile: la vendemmia.