Il miglior gelato al mondo è cinese, il miglior panettone al mondo è spagnolo, la miglior pizza al mondo la fa un napoletano che sta a Washington da anni. Non abbiamo inventato niente: è il risultato delle ultime competizioni internazionali che hanno al centro quelle che consideriamo le più grandi tipicità italiane. Al netto del valore di queste competizioni, che come ben sappiamo fotografano un ambito e ne restituiscono una classifica sempre e comunque parziale e imperfetta, qualcosa questi risultati ci stanno dicendo. Noi non siamo più capaci di fare le nostre bandiere del gusto? Non è questo il tema.
Siamo bravissimi, ma abbiamo fatto dei prodotti talmente buoni da essere apprezzati e replicati in tutto il mondo.
E siccome gli stranieri erano scontenti di assaggiare in patria cose non all’altezza di quelle gustate qui, artigiani locali hanno capito quanto sarebbe stato importante farle sempre meglio, portando in Cina, in Spagna e negli Stati Uniti tecnica, ricette, ingredienti e saper fare italiani, diventando a volte persino più bravi di noi.
Ma non solo: noi stessi siamo andati tanto all’estero, questo è un lavoro e un settore che porta fuori, che fa crescere tanti giovani viaggiando. La contaminazione è dietro l’angolo e la voglia di mostrare quello in cui si è bravi porta a far crescere anche gli altri, che apprendono e personalizzano, colgono spunti e li fanno loro. Vale anche viceversa: la cucina italiana, soprattutto di alto livello, è ormai considerata un grande riferimento, e tanti giovani stranieri vengono qui a fare i loro stage, o a fare esperienze di lavoro. Al rientro, hanno appreso e compreso le nostre ricette contemporanee e sono in grado di replicarle con efficacia. Non solo: hanno capito che questi gusti sono amati, e che possono essere un veicolo di business vincente anche nella loro patria.
Questo ci farà perdere la rendita di posizione su prodotti che riteniamo “nostri”? Assolutamente no, anzi. Il fatto che le specialità considerate italiane facciano il giro del mondo, e vengano preparate sempre meglio dai tanti cuochi e pasticcieri all’estero, non fa che rafforzare la nostra credibilità e ci dà una posizione di vantaggio, rendendoci sempre più desiderabili, al punto da portare altri a voler essere come noi, a volerci assomigliare. È il principio della dolce vita, con una differenza sostanziale: allora era una visione edulcorata e di nicchia, quasi mitica e immaginaria. Oggi, chi vuole fare il panettone buono come il nostro e ci copia, e riesce nell’impresa, ha di fatto costruito un’enclave italiana del gusto in terra straniera, dandoci la paternità di quel gesto e di quel sapore, e fotografando perfettamente l’attualità e la contemporaneità dell’Italia. Non scimmiottano, emulano. Non copiano ma capiscono e replicano, sempre meglio e con sempre maggiore raffinatezza. Dandoci di fatto la supremazia nel settore del gusto: oggi, di fatto, siamo quelli da prendere a esempio, e noi l’avevamo intuito più o meno un anno fa, a Parigi. Adesso non ci resta che mantenere questo primato, e continuare nell’unico gastronazionalismo possibile: quello del gusto, degli ingredienti, della maestria artigianale.