Il settore tessile è uno dei più inquinanti del mondo, questo è un dato di fatto incontrovertibile. Produce da solo il dieci per cento delle emissioni di gas serra a livello globale, ed è responsabile del quattro per cento del consumo di acqua dolce, del venti per cento dell’inquinamento idrico industriale e di circa il trentacinque del riversamento di microplastiche negli oceani.
Come se non bastasse, i rifiuti tessili post-consumo stanno crescendo a dismisura: l’anno scorso hanno raggiunto a livello mondiale il record assoluto di cento milioni di tonnellate annue; per dare un’idea del volume, si tratta dell’equivalente di più di trecento miliardi di vestiti usati. Ma sarebbe sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, considerando l’industria tessile e dell’abbigliamento come se fosse un tutt’uno.
Da un lato abbiamo il fast fashion, che è caratterizzato da processi produttivi inquinanti e da una deteriorabilità velocissima dei prodotti, che quasi subito diventano rifiuti; rifiuti che sono oltretutto scarsamente recuperabili a causa della bassa qualità delle fibre. Dal lato opposto abbiamo invece una massa critica di brand di gamma medio-alta che scommettono e investono sulla sostenibilità, ossia sulla qualità delle filiere di produzione e sulla progettazione eco-compatibile del prodotto.
L’Italia, che è il secondo produttore tessile al mondo e rappresenta da sola il quaranta per cento della produzione tessile europea, ha un indubbio ruolo di leadership in questa tendenza virtuosa, e a testimoniarlo è il “Dow Jones Sustainability Index”. Nel fomentare questo approccio hanno avuto un ruolo determinante le principali associazioni di categoria nazionali – Sistema moda Italia e Camera nazionale della moda italiana –, che da tempo hanno messo la sostenibilità in cima alla loro agenda e operano come punto di raccordo tra le imprese stimolando l’innovazione.
Una riforma irreversibile
L’insostenibilità del fast fashion, dalla produzione fino alla gestione del rifiuto finale, è già da diversi anni all’attenzione delle istituzioni europee. L’Europa è il principale consumatore di fast fashion nel mercato globale, e si trova a dover gestire una montagna di rifiuti che sta crescendo in modo esponenziale. Secondo gli ultimi dati dell’Agenzia europea dell’ambiente, il consumo pro capite europeo ha raggiunto i sedici chilogrammi annui ad abitante, totalizzando un volume di sette milioni di tonnellate che per oltre il settanta per cento viene raccolto in modo indifferenziato e avviato a discarica o incenerimento.
A partire dal “Pacchetto dell’economia circolare” del 2018 e dal Green deal del 2020, è iniziato un intenso percorso di concertazione che ha portato, nel 2023, all’adozione della “Strategia per i tessili sostenibili e circolari”, che punta a riformare profondamente il settore introducendo elementi normativi che portino tutte le imprese a seguire la strada dei brand più lungimiranti.
Le azioni indicate nella strategia si stanno già traducendo in direttive e regolamenti, e spaziano dall’ecodesign alla gestione sostenibile dei prodotti invenduti, dal contrasto al greenwashing al monitoraggio delle filiere produttive internazionali, dal passaporto digitale del prodotto fino ad arrivare alle modalità di prevenzione e recupero dei rifiuti.
L’applicazione di questa strategia è irreversibile, non solo perché fette consistenti dell’elettorato europeo pretendono una svolta ecologica, ma anche perché si tratta del percorso più efficace in termini geoeconomici: sul mercato globale le imprese europee possono vincere per l’alta qualità dei loro standard, mentre hanno difficoltà a competere in un mercato che punta solo a ridurre costi, sacrificando l’ecosistema e i diritti delle persone; allo stesso tempo, occorre contenere il prezzo internazionale delle materie prime immettendo sul mercato la maggior quantità possibile di materie secondarie riciclate. Lo stesso riutilizzo degli abiti è considerato strategico, perché compete con il low cost di origine asiatica e produce ricchezza dentro i confini europei.
La sfida della circolarità
Le azioni chiave poste in campo dall’Unione europea per la circolarità del tessile sono l’ecodesign (prodotti durevoli e recuperabili, che contengano quote di materiale riciclato), l’obbligatorietà della raccolta differenziata del rifiuto tessile, l’introduzione di regimi di responsabilità estesa del produttore, controlli più rigorosi sulle spedizioni estere di rifiuti tessili e abiti usati e sistemi di tracciabilità del prodotto che si estendano anche alle fasi di gestione del “fine vita”.
In questo meccanismo ha una speciale importanza la responsabilità estesa del produttore, ossia la responsabilità dei produttori tessili e di abbigliamento nell’organizzare e finanziare le filiere di recupero dei rifiuti tessili. Il settore made in Italy ha anticipato gli obblighi normativi creando consorzi pronti a farsi carico della gestione dei rifiuti.
Già nel 2022 Sistema moda Italia e Fondazione del tessile italiano hanno costituito il consorzio Retex.green e la Camera nazionale della moda italiana ha costituito il consorzio Recrea. Entrambi i consorzi per gestire le operazioni hanno deciso di affidarsi a Safe, l’hub delle economie circolari che ho l’onore di dirigere e che coordina già efficacemente, da diversi anni, filiere di recupero dei rifiuti elettrici ed elettronici, degli pneumatici e delle batterie.
Per offrire ai consorzi dei produttori tessili un miglior servizio di coordinamento delle filiere di recupero, Safe ha costituito nel 2023, assieme allo studio multidisciplinare Envalue Consulting, una società ad hoc chiamata Textile waste management (Twm). Il lavoro è già iniziato, con raccolte di rifiuti tessili industriali in tutto il paese e il coinvolgimento di un gran numero di operatori della selezione, del riciclo e del riutilizzo; il contatto strutturato tra i recuperatori e i produttori sta già producendo interessanti innovazioni nel campo del riciclo.
Quando la responsabilità estesa del produttore tessile entrerà formalmente in vigore anche in Italia, troverà un ingranaggio già oliato e collaudato, pronto a farsi carico anche del rifiuto tessile post-consumo. I Comuni non saranno più lasciati soli nel perseguimento degli obiettivi di raccolta e recupero di questi rifiuti, perché potranno sinergizzare con consorzi di produttori in grado di massimizzare i volumi di recupero e sorvegliare la correttezza delle filiere. Il punto della legalità per il settore italiano del recupero dei rifiuti tessili è particolarmente caldo: nella scorsa legislatura la Commissione Bicamerale “Ecomafie” ha aperto uno specifico filone d’inchiesta, culminato in una relazione che mostra illegalità diffusa e pesanti infiltrazioni della criminalità organizzata.
Per questa ragione Safe e Twm, su mandato dei consorzi Retex.green e Recrea, hanno sviluppato (e stanno già applicando) speciali protocolli di verifica e controllo, che includono severi criteri di selezione degli operatori di filiera, il monitoraggio di ogni singolo trasporto e verifiche documentali e di campo in ogni anello della filiera del recupero, con speciale attenzione all’idoneità merceologica degli stock inviati ai canali del riutilizzo e del riciclo.