Mentre in Italia la politica si azzuffa sulle nomine Rai, discutendo se il canone debba restare a settanta euro al mese o risalire a novanta, il mercato televisivo sta attraversando da anni una fase di trasformazioni epocali. Sempre meno persone la guardano. Dal 2013 in Europa la visione quotidiana della tv da parte delle persone di età compresa tra i sedici e i ventiquattro anni è diminuita del settantotto per cento, da due ore e ventinove minuti a trentatré minuti nel 2023.
Allo stesso modo, il calo tra la fascia di età compresa tra quattro e quindici anni è stato del settantadue per cento, da due ore e sedici minuti a trentotto minuti. E sempre nel 2023, per la prima volta, un quarto degli individui e la metà dei giovani tra i sedici e i ventiquattro anni non hanno guardano la televisione su base settimanale.
Eppure il tempo che gli utenti europei e americani dedicano alla fruizione di contenuti video, non cala, anzi, aumenta leggermente. Solo che questo tempo è sempre più dedicato alle piattaforme di streaming (Netflix, Amazon, Disney, ma anche Sky e quelle dei broadcaster tradizionali, come in Italia Rai e Mediaset) e ai video sugli smartphone, che vuol dire YouTube, TikTok, Instagram.
A essere messo in crisi è il vecchio modello di business della tv: offrire un mix di programmi organizzati in palinsesti, con contenuti che vanno dalle news ai film, dai documentari alle serie televisive e naturalmente lo sport. Un’industria finanziata fondamentalmente da due risorse; la pubblicità e gli abbonamenti. Fino a cinque anni fa il modello sembrava reggere. Ora non più.
La pubblicità sta abbandonando le vecchie tv generaliste. Ma anche le pay tv tradizionali (Sky, Canal+ in Francia, Premiere in Germania, Movistar in Spagna) non sta bene. Anzi, mentre per la tv generalista in chiaro finanziata dalla pubblicità si parla di declino, per le pay tv satellitari si tratta di una vera e propria fagocitazione: in Italia Sky, che aveva raggiunto quasi cinque milioni di abbonati, ora ne ha appena due milioni e mezzo via satellite, anche se a questi si aggiungono altri seicentomila che la ricevono sui cavi della banda larga.
Numeri tutti che derivano dal recente studio di ITMedia-Consulting intitolato “Turning Digital: Mainstream tv, is this the End?”. «Questa trasformazione è partita dagli Stati Uniti ma ora l’Europa, sia nel su complesso che nei singoli mercati nazionali, anche se con velocità diverse, sta seguendo lo stesso percorso – spiega Augusto Preta, direttore di ITMedia – E negli Stati Uniti la tv lineare è clamorosamente in declino, con quella via etere che, secondo i dati Nielsen, è scesa al di sotto del cinquanta per cento in termini di ascolti rispetto alle fruizioni delle piattaforme di streaming e dei social. E sta perdendo risorse: nel 2024, per la prima volta, la pubblicità video digitale negli Stati Uniti sarà oltre il cinquanta per cento del totale video, superando così la raccolta dei broadcaster tradizionali».
Si spostano gli investimenti pubblicitari ma si spostano anche gli abbonamenti. Gli abbonamenti alle piattaforme streaming costano relativamente poco, attorno ai dieci-quindici euro al mese rispetto a quelli delle pay tv satellitari, e infatti la il numero degli abbonati ai vari Netflilx e Disney hanno già da molto superato in Europa quelli alle vecchie pay tv, ma ora c’è stato anche il sorpasso in termini di ricavi.
In Europa questo è accaduto ovunque tranne che nel Regno Unito, dove Sky mantiene una forza di mercato considerevole, il sessanta per cento, ma da questa parte della Manica i valori sono ovunque rovesciati a favore delle piattaforme: cinquantasette per cento in Spagna, cinquantadue per cento in Italia, cinquantasei per cento in Francia, sessantadue per cento in Germania.
All’inizio la divisione tra vecchie e nuove tv era più netta: la pubblicità ai broadcaster e alla tv in chiaro via etere, gli abbonamenti alle piattaforme. Ma ora non è più così. Anche Netflix & Co hanno iniziato a guardare al mercato pubblicitario lanciando abbonamenti più economici agli utenti che accettano gli spot intervallati nelle trame di film e serie.
Certo, sulle piattaforme di streaming gratuite (come RaiPlay in Italia, per esempio) la pubblicità c’è sempre stata. Anzi: «Tutti i broadcaster hanno trovato nelle loro piattaforme, più o meno gratuite, un po’ di ristoro al calo degli investimenti pubblicitari sui canali Free – spiega Preta. Ma è solo quando Netflix, due anni fa, ha lanciato i nuovi abbonamenti con pubblicità che il mercato ha iniziato a rispondere: l’Avod, l’Advertising video on demand, la sigla con cui gli analisti media chiamano questo sistema misto, ha visto raddoppiare i ricavi da spot rispetto al livello del 2019, tanto che ora valgono il ventuno per cento del totale del mercato pubblicitario».
Ma guai a pensare che la partita sia finita e che vincitori e vinti siano ormai stati decisi. Intanto perché ci sono ancora sacche di resistenza significative del vecchio modello. E se la pay tv satellitare ancora regge bene in Regno Unito, la tv via etere in chiaro basata sulla pubblicità resiste vigorosamente in Spagna e ancor più proprio in Italia.
Nel 2023 in Europa (nelle analisi di ITMedia l’Europa comprende l’Ue più Regno Unito, Svizzera e Norvegia) i ricavi pubblicitari del sistema delle tv sono calati di circa il tre per cento. Una media composta dal grande calo registrato in Regno Unito e in Germania soprattutto, ma ammorbidito da Italia, Spagna e Francia, dove gli investimenti pubblicitari sono cresciuti del due per cento. Il tutto va compendiato dai diversi pesi relativi: Francia e Italia hanno un mercato pubblicitario simile (3,5 e 3,3 miliardi di euro), il Regno Unito 5,8, la Germania 5 e la Spagna 1,7. Se i due maggiori mercati perdono molto e i tre minori recuperano un po’ non si può certo parlare di un declino che inverte la rotta.
Ma anche l’orizzonte delle piattaforme di streaming non è del tutto un rosa perché sta crescendo la concorrenza dei social network. Il consumo di video si sta spostando verso di loro. Netflix sta tornando a crescere perché la sua politica di abbassare i prezzi, grazie alla pubblicità, mentre dà un giro di vite all’utilizzo multiplo degli abbonamenti sta facendo crescere al momento sia il numero degli abbonati che l’ammontare dei ricavi. Ma il recupero non andrà avanti all’infinito. Anche il tempo di visione non potrà continuare a crescere per ovvie ragioni fisiche, la durata della giornata resta quella, e d’ora in poi ci si dovrà abituare a variazioni da zerovirgola.
E anche l’espansione degli abbonati non può essere infinita. Questo sta già creando degli effetti. La pubblicità tende ad andare là dove c’è l’attenzione degli utenti. E questa attenzione, l’audience, si sta spostando sempre più verso i social. Solo che i social non sono media affidabili, come i vecchi broadcaster e neanche come le nuove piattaforme. Inserire pubblicità su TikTok o su Facebook è rischioso. Non si sa dove si va a finire (guardare per credere lo scandalo degli influencer). E poi, in ogni caso, i video dei social sono troppo corti per inserire la pubblicità raccontata degli spot.
Una prima risposta arriva da YouTube., che in questo caos ha messo in campo nuove strategie puntando a essere smart come un social network (e d’altronde ne è stato l’antesignano) e al tempo stesso affidabile come un broadcaster. Sta puntando ad allungare i video dei creativi e a fare una selezione molto più accurata dei contenuti che pubblica. Sta quasi diventando una tv, insomma.
Infatti a febbraio scorso YouTube ha realizzato un significativo record negli Stati Uniti: in occasione della finale del Super Bowl, di cui ha i diritti, la tv streaming ha consolidato il suo primato, del 37,7 per cento, rispetto al ventisei per cento della vecchia tv via cavo e al ventitré per cento del broadcast via etere. E YouTube è diventato il primo canale per ascolti, con uno share del 9,3 per cento. Davanti anche al 7,8 per cento di Netflix.
Ma qui siamo lontani dal mondo dei creativi digitali e dai micro video della generazione TikTok. I diritti del Super Bowl li ha strapagati: 2,5 miliardi di dollari l’anno per sette anni. E li fa strapagare anche ai suoi abbonati: quattrocentoquarantanove dollari l’anno, e si può comprare solo la stagione intera. Tutto o niente, altro che abbonamento mese per mese disdicibile in ogni momento.
Siamo quindi all’opposto dell’internet tutta gratuita degli anni pionieristici, e anche dai pochi dollari o euro al mese delle piattaforme streaming. Qui siamo più vicini al modello Sky basato sui grandi eventi live. E la vecchia tv in chiaro con i suoi rassicuranti palinsesti può dormire più tranquillamente. Ancora per un po’.