Un po’ oscurata, nell’ultimo fine settimana, dal finto derby tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo, la due giorni di Milano del Cantiere liberaldemocratico non ha suscitato l’attenzione mediatica che meritava, ma ha avuto successo, e forse è l’ultimo fatto nuovo di questo 2024 di tormentata transizione, con l’occhio lungo su cosa succederà nel 2027. C’è un legame simbolico tra l’evento dell’Eur, con la fine del grillismo, e la contemporanea rinascita di un orgoglio liberale paradossalmente rilanciato dalla ribellione alla fine del Terzo Polo. Scende un sipario su una stagione folle e il piccolo mondo non populista tira un respiro. Il nemico più insidioso non è certo sconfitto (il populismo è forse la vera autobiografia della Nazione) ma si ripresenterà sotto le forme di una farsa. Chissà se si capirà.
I sedicenti liberali sono notoriamente molto diffusi in quasi tutti i partiti, ma non esistono in quanto tali. Insieme all’assenza socialista costituiscono la grande anomalia della democrazia italiana. Perché dunque proclamano di esistere proprio ora, raccogliendo cinque delle infinite sigle liberali, tanto per cominciare? E perché lo fanno sventolando il proprio nome come da tempo non accadeva?
Effettivamente colpisce l’uso diretto, senza perifrasi, di una identità. Non era accaduto nei lunghi anni dell’epopea berlusconiana, quando alcune persone fisiche di estrazione liberale avevano accettato di essere cooptate nei vertici di un partito dal nome calcistico. Ma erano durati poco, pur proseguendo la presunta esistenza di un partito liberale di massa, così come erano durate poco le battaglie dei liberali sull’altro fronte, fino all’ultimo soldato di quell’epoca, Andrea Marcucci, disinvoltamente disarcionato da capo dei senatori del Partito democratico proprio dal “liberale” Enrico Letta.
All’appuntamento con il Terzo Polo, molti erano arrivati esausti, piegati da decenni di sgomento, ed era già molto che si auto descrivessero come una terza gamba, rispetto agli arti presunto muscolosi di due soggetti come Azione e Italia Viva. A Milano, nel gennaio 2023, alla Convention convocata sulla spinta emotiva del buon risultato terzopolista di pochi mesi prima, c’erano centinaia di persone, ma le star che contavano e facevano venire la gente erano Matteo Renzi e Carlo Calenda. Il dibattito lo monopolizzarono loro promettendo di volersi bene e di preparare destini luminosi. A crederci davvero c’era però solo la terza gamba, vittima vera, non colpevole, della lite successiva, non sanata neppure dal carisma di Emma Bonino.
Sabato e domenica, al grande Teatro dell’Expo, senza la calamita delle speranze calendiane e renziane, si è presentato più del doppio dei partecipanti di quell’incontro illusorio, e ha discusso per ore – inesorabilmente falciati dalla clessidra di interventi brevi e brevissimi – senza neppure evocare i fantasmi dei Dioscuri del 2022/2023. Di loro non si è praticamente detto alcunchè, accomunati nel disastro.
Di buono c’è proprio il fatto che si è parlato invece di futuro, sia nella scelta dei temi sia nell’abbozzo delle caratteristiche di un nuovo partito liberale. Interessante la platea dell’incontro, popolata innanzitutto da molti giovani (calamitati da Nos, con Alessandro Tommasi fascinatore, o portati dalla fatica formativa di Liberal Forum), accanto ai capelli bianchi di molti ex Partito liberale italiano ed ex Partito repubblicano italiano. Quest’ultimi una novità importante, perché rappresentati da una ex classe dirigente di qualità, post Ugo La Malfa: Oscar Giannino, che ha parlato con la consueta grande energia, Enrico Cisnetto, Davide Giacalone.
Per ora è iniziato solo un percorso, che a far in fretta si concretizzerà nel 2025 o ancora più in là. Per ora, bastava mettere in campo “Il coraggio di cominciare”, come da titolo della kermesse. Era infatti necessario mettere un cappello su una sedia che tanti vorrebbero occupare, prima che l’arrembaggio liberale confonda di nuovo le acque.
Il quadro è ben noto. Il primo pretendente è Antonio Tajani, che si è già impossessato di una bella fetta del disastro del Terzo Polo. Ultimamente ha messo in campo un po’ di quella grinta che assolutamente gli manca, ma – per fortuna dei lib apoti – che insomma non bevono la riproposizione berlusconiana, ci metterà molto tempo, forse tutto il tempo disponibile, per tradurre in atto una vera distinzione dalla destra meloniana e salviniana, di cui è succube. Qualcuno ci casca, ma molti resteranno alla larga.
Fuori dalla porta liberale c’è poi la fila: ultimo arrivato il ciellino Maurizio Lupi, con le sue girls, e persino Beppe Sala, che sembrava voler essere verde ma, nella città dei grattacieli nati su un garage (copyright di un ex del Partito comunista italiano riformista, Luigi Corbani), preferisce forse il più gratificante marchio liberale, sempre che qualcuno glielo chieda, e non sembra.
Poi ci sono sempre pronte le gambone del passato: quella di Matteo Renzi e quella di Carlo Calenda, quest’ultimo con una chicca che l’evento dell’Expo ha segnalato: la disponibilità della sua competitor interna, Giulia Pastorella, a trascinare Azione dentro i liberali se vincerà, o se stessa se perderà. Insomma, l’area è affollata per competere su quel dieci per cento, qualcuno dice anche quindici per cento, pensando alla meteora Mario Monti.
Insomma, fa gola a tanti e vuol dire quanto meno che esiste, come segnalano tutti i sondaggi. Questa è già una risposta alle due obiezioni principali, e cioè come possa questo partito liberale nascente emergere con la legge elettorale attuale e con la non indicazione di un’alleanza preferenziale (centrosinistra, come è più facile, o centrodestra?). Obiezione che i promotori respingono indicando che i liberali britannici hanno comunque risultati a doppia cifra e quello francesi, pur con tutte le difficoltà di Emmanuel Macron, sono a livelli più alti di quelli qui citati. Ma, nell’Italia politica di oggi, malata ancora dall’insano bipolarismo sognato nei lontani anni Novanta, ci sono anche altre obiezioni: chi guiderà questo partito, chi avrà la personalità di riuscire a svegliare il torpore degli elettori centrali (non centristi, centrali) attirando il voto?
La risposta l’ha data il sostanziale numero uno di questa fase nascente, Luigi Marattin, che ha concluso la kermesse proprio respingendo questa tentazione di ridurre tutto a un nome e cognome, anziché chiedere cosa vuoi, dove state andando? Un tempo sarebbe stata retorica, ma è pur vero che il male profondo della politica italiana è quello di ridursi a un nome, magari per essere agevolati nell’individuazione di un nemico da colpire.
Luigi Marattin è stato duro su questo, rivolgendosi agli attuali protagonisti degli schieramenti pronunciando un bel «non siamo come voi!», che è già la premessa per disegnare un’autonomia (non una equidistanza) tra i due poli. E lo spazio indubbiamente c’è, checché ne pensi in apparente convergenza il Goffredo Bettini, scienziato pazzo del laboratorio che vuole costruire un centrosinistra in cui il centro ci sia, purché subordinato.
Luigi Marattin, e con lui Andrea Marcucci – che si avvia a costruire il tandem della transizione fino al Congresso costitutivo – avendo ben sperimentato le alchimie Pd, si sottraggono a questo gioco e indubbiamente, almeno sulla carta, si pongono in competizione attiva sia con un isolato Carlo Calenda che con Matteo Renzi, che per ora ha avuto argomenti a sostegno della sua tesi di addomesticamento delle velleità di Elly Schlein, ma certamente non vorrà fare la cavia in casa Bettini.
Insomma, la cosa più affascinante, perché non necessariamente distruttiva, della sfida partita dall’Expo di Milano, è questa competitività nell’area di centro (con un forte discorso di Carlo Cottalerelli in proposito) a cui i liberali chiedono di partecipare finalmente a pieno titolo, con le proprie idee non prestabili a nessuno, visto l’uso che ne è stato fatto in questi anni. Luigi Marattin dà garanzie maggiori di qualunque altro capo partito italiano sui temi dell’economia, che saranno decisivi in questi anni, e Andrea Marcucci ha rivendicato significativamente la funzione rivoluzionaria dell’imprenditoria. Argomenti di cui la democrazia italiana dei partiti da talk show ha indubbiamente bisogno.