Interesse compostoLa missione dell’IA e la vera lezione di Keynes sul lunghissimo periodo

Come spiega Alessandro Aresu in “Geopolitica dell’intelligenza artificiale” (Feltrinelli), le scelte attuali sono fondamentali per orientare la tecnologia generativa verso il beneficio comune e non lasciare che l’erosione del presente da parte del futuro ci privi di un controllo responsabile.

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«Nel lungo periodo siamo tutti morti» non è una frase solamente attribuita a Keynes, al contrario di «Quando i fatti cambiano, io cambio idea». L’economista, nel libro sulla riforma monetaria del 1923, esprime il concetto nei seguenti termini: «Questo lungo periodo è una guida ingannatrice negli affari correnti. Nel lungo periodo saremo tutti morti. Gli economisti si attribuiscono un compito troppo facile e troppo inutile, se, in momenti tempestosi, possono dirci soltanto che, quando l’uragano sarà lontano, l’oceano tornerà tranquillo». Come si vede, la citazione è incompleta se non si mette in rapporto il fatto che saremo tutti morti con quel «compito troppo facile e troppo inutile», che per Keynes coincide con lo spostamento di un problema del presente nel futuro, ovvero in un contesto indefinito e incalcolabile.

Il compito del presente, dentro la metafora, è cercare riparo dall’uragano ora, agire nel momento in cui è possibile farlo, e in cui si può essere responsabili dell’azione. Il futuro può uccidere il presente. La decisione del futuro si compie nel presente, che, in termini agostiniani, è il tempo che mi chiama. È questo tempo che ci riguarda, non un tempo indistinto, per sua natura dilatato, che tende a mangiare il presente e a indebolirlo, erodendo la propria stessa condizione di possibilità.

Nel 1937, Keynes ritorna su quei concetti in due occasioni: la prima è uno scritto tecnico che specifica il contenuto della Teoria generale, giustificando la sua polemica con la «teoria tradizionale» o «teoria ortodossa», perché quest’ultima «presuppone una nostra conoscenza del futuro molto diversa da quella che effettivamente possediamo. Questa falsa razionalizzazione segue le linee del calcolo benthamiano. L’ipotesi di un futuro calcolabile conduce a un’interpretazione sbagliata dei principi di comportamento che il bisogno di agire ci costringe a adottare, e a una sottovalutazione di alcuni fattori nascosti, quali il dubbio estremo, l’incertezza, la speranza e la paura». La seconda è un commento dell’estate 1937 sulla politica estera britannica: in riferimento alla guerra civile spagnola, Keynes si richiama alla poesia di W.H. Auden, Spain, per tornare sul suo concetto di tempo. «Ieri, tutto il passato. Domani, forse il futuro. Ma oggi, la lotta».

Per Keynes, in quel caso, la priorità del presente è il mantenimento della pace. A questo proposito scrive: «È nostro dovere prolungare la pace, ora dopo ora, giorno dopo giorno, il più a lungo possibile. Non sappiamo cosa porterà il futuro, tranne che sarà molto diverso da qualsiasi cosa potessimo prevedere. In un altro contesto ho detto che è uno svantaggio del “lungo periodo” il fatto che nel lungo periodo saremo tutti morti. Ma avrei potuto dire altrettanto bene che è un grande vantaggio del “breve periodo” il fatto che nel breve periodo siamo ancora vivi. La vita e la storia sono fatte di brevi periodi». Come per un’altra frase del caleidoscopio di Keynes, anche una parte dei rivoli attorno all’intelligenza artificiale sono «schiavi di qualche defunto economista».

La schiavitù, contro cui Keynes si scaglia, riguarda «l’ipotesi di un futuro calcolabile», che emerge come una variante del culto della legge dei ritorni acceleranti. L’accelerazione come problema è l’erosione del presente da parte del futuro, la volontà di governare il futuro mettendo tra parentesi il presente. Eppure, anche i brevi periodi del presente si collocano sullo sfondo di un futuro possibile, che Keynes delinea in possibilità economiche per i nostri nipoti: «Nel lungo periodo, l’umanità è destinata a risolvere tutti i problemi di carattere economico». È il discorso, letto per la prima volta nel 1928 e poi pubblicato nel 1930, in cui l’economista si distacca dalle preoccupazioni immediate del suo tempo e si sporge verso il secolo successivo, cioè verso il nostro.

In questa apparente contraddizione del suo pensiero, Keynes constata che, fino al Sedicesimo secolo, il progresso nella qualità della vita della media delle persone è lento e limitato, soprattutto per la mancanza di innovazioni tecniche dirompenti e l’inefficace accumulazione di capitale. Ma noi siamo figli dell’esplosione che avviene nei secoli successivi, e che deve curarci da una «forma particolarmente virulenta di pessimismo economico». Forza trainante della storia che abitiamo è il «potere dell’interesse composto».

Tale potere, in atto nella storia, può trasformare somme di denaro relativamente modeste in continue capacità di investimento, che migliorano la qualità della vita e che impongono all’uomo di «affrontare il problema più serio, e meno transitorio – come sfruttare la libertà dalle pressioni economiche, come occupare il tempo che la tecnica e gli interessi composti gli avranno regalato, come vivere in modo saggio, piacevole e salutare».

Questo lunghissimo periodo, in Keynes, cambierà la tradizionale distinzione tra bisogni «assoluti», che non dipendono dalla posizione sociale o economica, e bisogni «relativi», che mirano a stabilire una superiorità rispetto agli altri e sono legati a relazioni reciproche, al riconoscimento e a quello che il maestro di Peter Thiel, René Girard, chiama «desiderio mimetico».

Keynes suggerisce che i progressi tecnologici potrebbero soddisfare i primi bisogni, permettendoci di focalizzarci maggiormente sui secondi, ma anche di riconsiderarli, forzandoci a valutare ciò che rende veramente la vita degna di essere vissuta. Non sarà un cammino semplice. Alla malattia generale, collocata all’inizio del suo discorso, del «pessimismo economico», Keynes con la sua prosa profetica ne affianca già un’altra: «Un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza altrove». La disoccupazione tecnologica, così definita da Keynes, è un tema che torna in tutte le successive «transizioni», vere e presunte, compresa quella attuale dell’intelligenza artificiale.

Anche alla luce delle parole di Keynes, possiamo rileggere la missione di OpenAi per come viene esposta da Ilya già nel 2018: «Assicurare che l’intelligenza artificiale generale, definita come sistemi autonomi in grado di superare gli umani nella maggior parte dei lavori con un valore economico, vada a beneficio di tutta l’umanità». Come più volte ripetuto, questa è una tesi di mercato, che identifica specifici lavori, con valori economici di riferimento, per ottenere finanziamenti, generare occupazione e disoccupazione tecnologica, secondo equilibri da determinare.

Questo calcolo «transitorio» può essere affidato sia alla risposta dei consumatori, giudici dell’adozione delle macchine sui mercati, sia, in parallelo, alla previsione di «una categoria di persone utili e competenti, come i dentisti», gli economisti che si dedicano a misure accurate. Di qui la discussione sulla sostituzione del lavoro, sul suo affiancamento (inteso come «aumento» di capacità o come «copilota» secondo rappresentazioni fornite dalle stesse aziende, come Palantir e Microsoft), sulla possibilità dell’intelligenza artificiale di accrescere in modo consistente la produttività. 

Chi è immerso nella transizione e deve rispondere alla questione pressante della transizione, che nel rapporto presente-futuro di Keynes è comunque prevalente, si sporge lo stesso nel lunghissimo periodo: «Nessun paese, e nessun popolo, può guardare alla prospettiva di questa età dell’oro senza un filo di apprensione. Da troppo tempo ci alleniamo a combattere, non a divertirci». Fino a quando?

Tratto da “Geopolitica dell’intelligenza artificiale” (Feltrinelli), di Alessandro Aresu, pp. 576, 24,00€

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