Quesiti linguisticiIl capo e la capa, spiegati dall’Accademia della Crusca

La formula al femminile, pur circolando nell’italiano parlato e scritto, non ha ancora perso, per la maggior parte dei parlanti, la connotazione scherzosa e colloquiale

(Unsplash)

Tratto dall’Accademia della Crusca

Prima ancora di affrontare la questione della forma femminile capa, è opportuno precisare alcuni aspetti del maschile capo. Etimologicamente deriva dal neutro latino caput, -itis ‘testa’ (la definizione, pressoché analoga nei dizionari, è quella di ‘parte del corpo umano unita al torace per mezzo del collo’), termine che ha attraversato la storia dell’italiano in parallelo al suo geosinonimo testa (dal latino tardo testa ‘vaso, conchiglia’, passato poi per uso metaforico a indicare il cranio, il “contenitore” del cervello). L’allineamento delle due forme è ben testimoniato da numerose espressioni in cui capo e testa risultano in alternanza perfetta: si pensi solo a abbassare/ alzare la testa/ il capo, frullare (passare) per la testa/ per il capo; mal di testa/ mal di capo; perdere la testa/ il capo e molte altre. L’attuale distribuzione areale delle due forme (nella carta 93 ‘la testa’ dell’AIS, Atlante Italo Svizzero, visibile anche in rete) prevede l’uso di testa nell’Italia settentrionale (con qualche eccezione nelle regioni più orientali) e nelle aree dell’estremo meridione (Sicilia e zone estreme della Calabria), mentre nelle parti restanti del Sud si è affermato capo, nella forma femminile capa (per influsso del greco antico κεφαλή di genere femminile); la situazione della Toscana e delle regioni centrali presenta una netta prevalenza di testa, ma con numerose zone di alternanza: in questo caso la selezione d’uso attribuisce a testa la funzione non marcata, neutra quindi dal punto di vista semantico, mentre capo assume una connotazione familiare che, scendendo verso il centro-sud, si fa ulteriormente marcata in forme scherzose e più strettamente regionali come capoccia (anche nel significato di ‘capo di una squadra di lavoratori’) capocchia e capa.

Da questo sintetico excursus apprendiamo intanto che capa è forma, sì regionale e di registro familiare, ma affermatasi, nel meridione, già nella forma femminile.

Il passaggio di capo dal significato primario di ‘testa’ a quello che stiamo trattando di ‘chi dirige l’attività di altre persone; chi esercita una funzione direttiva, un comando, un’autorità’ (cfr. GRADIT s.v., analoga definizione negli altri principali dizionari dell’italiano contemporaneo) rientra nel processo metaforico tipico di molti nomi anatomici che, da indicare una parte del corpo umano, hanno esteso il loro significato a ruoli e oggetti inanimati: si pensi, solo per fare qualche esempio, alla gamba del tavolo, alla bocca del vulcano, al braccio della scavatrice, al piede della montagna, al collo della bottiglia, all’occhio del ciclone. Il significato metaforico di capo (inizialmente nell’accezione di capo di un popolo o di un esercito) è documentato fin dal Duecento (cfr. GDLI) ed è presente in modo costante nella storia dell’italiano; alla fine dell’Ottocento inizia ad affermarsi, soprattutto in ambito militare, l’espressione in capo (ricalcata sul francese en chef) che viene aggiunta di seguito a comandante (in capo), generale (in capo), aiutante (in capo), con netta disapprovazione dei fautori di un italiano privo di forestierismi (specie francesismi) e burocratismi, come Costantino Arlìa e Pietro Fanfani, che nel loro Lessico dell’infima e corrotta italianità (1877) così commentavano (s.v. Capo):

In alcuni ufficii pubblici danno a taluni uffiziali di grado superiore il titolo di Capo, come Capo di divisione, Capo di sezione […]. In altri danno due titoli: Direttore Capo, Ingegnere Capo, Segretario Capo; e qui, lasciando da parte che fa capolino l’En chef francese, sembra davvero strano che un Direttore, che così addimandasi, perché egli è colui che dirige, sia anche Capo, cioè colui che sta a capo di un uffizio. Quanto alle altre forme dovrebbe dirsi o Capo Ingegnere, o Capo Segretario, ma è roba che non va; e sarebbe meglio assai, dire, come al tempo dei tempi, Primo Ingegnere, Primo Segretario, Primo Commesso, Primo Ajuto, Primo Ispettore, e così via dicendo.

Nonostante simili perplessità, composti del genere si moltiplicheranno nel corso del Novecento e diventeranno assolutamente correnti forme (anche univerbate) come capo cantiere, capofficina, caporedattore, caporeparto, capostazione, capo ufficio.

Dal punto di vista della formazione si tratta di composti che nascono dall’accostamento di due nomi tra cui vige solitamente una relazione di determinato/ determinante: il secondo elemento delimita l’ambito di pertinenza del primo (o testa del composto), per cui, ad esempio, il caporeparto è capo del reparto, il capostazione è capo di una stazione, ma l’elemento subordinante (la preposizione) non è esplicitato e i due nomi appaiono accostati quando non addirittura uniti in un’unica parola (per la formazione del femminile singolare e plurale di tali composti si rimanda alla risposta già pubblicata su questo sito).

Tali figure, in contesto informale, specie nella comunicazione tra colleghi, vengono comunemente citate come il capo, senza la necessità di specificare quale sia il perimetro entro il quale quella persona ha potere dirigenziale: una semplificazione consentita dalla situazione in cui tutti sono a conoscenza dei ruoli e del sistema gerarchico in cui è organizzato il posto di lavoro. La tendenza generalizzata verso usi meno formali della comunicazione ha fatto sì che anche alcuni generi di scrittura, a partire da quella giornalistica, abbiano accolto tale forma, amplificandone la diffusione.

Ma veniamo alla questione centrale su cui i nostri lettori chiedono chiarimenti: la forma femminile capa. Mi ricollego subito a quanto appena detto a proposito dei giornali, per riferirmi alla domanda molto articolata di uno dei nostri interlocutori, che ha scritto direttamente al direttore della “Repubblica” per richiedere l’introduzione, tra i criteri redazionali del quotidiano, dell’uso del maschile capo anche quando ci si riferisca a una donna con un ruolo direttivo di una qualche struttura (negli ultimi mesi si è continuamente letto della “capa dei servizi segreti” per parlare della direttrice del Secret Service Kimberly Cheatle).

La redazione della “Repubblica” ha in effetti un suo “prontuario” di riferimento (che è stato anche pubblicato nell’autunno 2016 come ultimo volume della Collana L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile, realizzata in collaborazione con l’Accademia della Crusca e uscita con cadenza settimanale in allegato al quotidiano): alla voce capo (p. 65) è trattata la questione dell’iniziale, maiuscola nel caso indichi un toponimo (Capo di Buona Speranza) e minuscola invece nella dizione capo dello Stato, e sono poi messi a lemma alcuni composti (capocronaca, capofamiglia, capoufficio) con un unico esempio di declinazione al femminile plurale (le capofamiglia) in cui si mantiene la forma invariabile e si affida all’articolo la marca del femminile. Dunque non ci sono indicazioni esplicite sulla opportunità (o no) di utilizzare la forma femminile capa, ma è innegabile che, proprio nelle pagine della “Repubblica”, non solo sono molto numerose le occorrenze di capa femminile riferito a una donna con ruoli dirigenziali, ma le prime occorrenze risalgono molto indietro nel tempo. Dalla consultazione dell’Archivio del quotidiano si recupera una prima attestazione nel 1988, in un’intervista a Lionello Cantoni marito di Marisa Belisario, in occasione della sua scomparsa:

“Marisa era ambiziosa, ma limpida, onestissima. E spendacciona, ma i soldi erano solo il simbolo di contare davvero. Voleva sempre essere la capa: il progetto Telit, la Superstet, sarebbero andati bene, ma solo se a comandare fosse stata lei. Puntava sempre al massimo”. (Enrico Bonerardi La morte della Belisario. “Ventotto anni d’amore per Marisa”, “la Repubblica”, 6/8/1988)

Il ricordo di Cantoni (si tratta quindi di un discorso riportato e non sono parole scelte dal giornalista) si snoda in un tono decisamente affettuoso, confidenziale e poco controllato (Marisa “cazziava” le segretarie, era una “pantofolaia”) e anche il ricorso a quel capa sembra conciliare tenerezza e bonaria ironia. Questa ricerca ha fatto riemergere anche un articolo del 1989 in cui venivano commentate le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua di Alma Sabatini, in cui si notava che

Fa eccezione il capo di stato maggiore, perché la capa di stato maggiore è stato considerato poco serio. Ma l’elenco dei termini consigliati (la marescialla, la capitana, l’ammiraglia, l’appuntata, l’assessora) finisce per richiamare irresistibilmente alla mente la serie dei film di Pierino”. (m. r., Se il ministro diventa ministra, “la Repubblica”, 19/3/1989)

Sempre a proposito della mozione che opera dal maschile capo al femminile capa, Alma Sabatini è stata citata recentemente da Anna M. Thornton nella sua guida Per un uso della lingua italiana rispettoso dei generi (2020, consultabile in rete), in cui, scrive:

La forma capa è per ora sentita come scherzosa, e al momento in Italia è sconsigliata in usi formali; tuttavia, si osservi che la forma è adottata nei testi ufficiali in lingua italiana del governo svizzero (per es. nel sito https://www.admin.ch). Capo è inoltre usato spessissimo in composizione con altri elementi, e in questi casi il composto può essere usato al femminile se riferito a donne anche se la forma capo non varia: Sabatini (1987: 116) osserva che “come si è sempre detto la capoclasse, la caposquadra” è normale dire e scrivere la caposervizio, la capostazione, la capofamiglia. (p. 29)

Da queste osservazioni abbiamo la conferma che capa, pur circolando ampiamente nella comunicazione informale sia parlata che scritta (difficile anche solo ipotizzare stime precise delle occorrenze in rete e nei giornali, vista la sovrapposizione tra la forma regionale la capa per ‘la testa’ e col titolo del film La capa gira), non ha ancora perso, per la maggior parte dei parlanti, la connotazione scherzosa e colloquiale. Proprio per questa ragione è ancora opportuno distinguere i contesti ed evitare la forma femminile in testi formali, istituzionali o ufficiali.

CONTINUA A LEGGERE

X