Questo potrà sembrare un articolo su Blake Lively (chi?) e Justin Baldoni (chi??), ma nelle mie intenzioni è un articolo sul fatto che a essere all’ultimo stadio non è il capitalismo, bensì la post-verità: siamo entrati in un’era in cui non c’è solo incertezza su quali siano i fatti, ma c’è proprio la scomparsa dei fatti. Restano solo le interpretazioni.
Forse ce ne sono (pochi) altri, ma a me vengono in mente solo George Clooney e Julianna Margulies, che siano diventati famosi con una serie televisiva e poi, fuori da quella serie, abbiano avuto una carriera come attori. Non è questione di talento: è che un personaggio televisivo è, in una scala da zero a cento della relazione parasociale, centocinquanta.
Il pubblico è davvero convinto che Sarah Jessica Parker sia Carrie Bradshaw, specialmente in questo secolo di stupidità collettiva e infantilismo istituzionalizzato: mica sono disposti a sospendere l’incredulità, vogliono sospirare «anch’io sono una Carrie» «no, io sono più una Charlotte», e lo vogliono sospirare anche (soprattutto) se hanno cinquant’anni e non quindici.
Di Justin Baldoni io fino a questa vicenda non sapevo neppure il nome: ho visto tutte le puntate di “Jane the virgin” (erano i beati anni in cui avevo ancora la pazienza di guardare cose a puntate), ma neppure mi ero mai presa il disturbo di memorizzare il suo nome. (E, fisionomista zero come sono, quando quest’estate è arrivato lo scandalo ho dovuto leggere in un articolo che era quello che avevo guardato per cento – cento! – ore di televisione).
Di Blake Lively sapevo il nome pur non avendo mai visto un minuto di “Gossip Girl”, un telefilm per adolescenti andato in onda tra i miei trentacinque e i miei quarant’anni. E sapevo che Blake Lively aveva fatto quel che fa una donna intelligente quando, dopo centoventuno puntate di televisione, sa che difficilmente avrà una carriera cinematografica.
Ha sposato uno che non solo è un nome nel giro dei supereroi (l’unico giro cinematografico che sarà monetizzabile almeno finché resteremo scemi, cioè per sempre), ma che ha anche fatto la stessa mossa intelligente di George Clooney: ha messo la sua faccia su una marca di superalcolici, e quando l’azienda è cresciuta di valore ha venduto le sue quote (le pagine di economia di un anno e mezzo fa dicevano che Ryan Reynolds aveva venduto il suo gin per seicentodieci milioni, centoventidue dei quali di profitto).
Dell’uscita di “It ends with us” – copio dal mio articolo estivo: «un film di regista sconosciuto con protagonista una tizia famosa quindici anni fa per un telefilm» – non me ne sarei neanche accorta, se non fosse stato per la prima parte dello scandalo, quella appunto in cui l’accusa era di aver presentato un film su una tizia che viene menata dal marito come una commedia romantica.
Poiché la stupidità contemporanea ha molto a cuore le buone cause, in particolare Blake Lively veniva accusata di aver parlato di fiori (la protagonista del film è una fioraia) e di prodotti per capelli (ovviamente Blake ha la sua etichetta: c’è una tizia famosa che non abbia un marchio di cosmetici a suo nome, in questo derelitto decennio?) invece che di, mettete su il tono dolente, violenza domestica. Avrebbe dovuto sensibilizzare, una parola per l’utilizzo della quale vorrei il 41 bis.
A quel punto è partito il secondo scandalo, che possiamo interpretare come una distrazione dal primo (i fatti non li sapremo mai, quindi via con le interpretazioni). I giornali americani ci hanno campato tutto agosto. Justin Baldoni (regista, protagonista, nonché colui che aveva i diritti del libro e da cui quindi non si poteva prescindere per il film) è unammerda, come dimostra il fatto che nessuno vuole andare sui red carpet con lui, e che tutto il cast gli ha tolto il follow su Instagram.
(Uno dei miei dettagli preferiti, di quest’epoca demente in cui crediamo di conoscere gli sconosciuti perché vediamo con chi interagiscono sui social, è l’idea che il follow sia un’arma. C’è gente che passa le giornate sui social a dire che bisogna togliere il follow sui social a figurine che guadagnano sui social e di cui quella stessa gente passa le giornate a parlare, e nessuno di costoro si sente nel nido del cuculo).
No, aspettate, Justin Baldoni è innocente, ha anche fatto un Ted Talk sul problema della violenza di genere, e poi ricordatevi che Blake si è sposata in un’ex piantagione. (Riassumendo: Ted Talk buono, matrimonio in posto dove duecento anni fa c’erano gli schiavi chiaro segno che sei a favore dello schiavismo: in confronto, le richieste agli italiani famosi di dichiararsi antifascisti sono storicamente sensate).
No, è Baldoni che è cattivo, e infatti ha la stessa pr che manipolò l’opinione pubblica in favore di Johnny Depp durante la causa con Amber Heard. No, è Lively che è cattiva, guardate come maltrattò quest’intervistatrice norvegese.
L’intervistatrice norvegese fu un momento invero sublime dell’estate di delirio. Questa derelitta tirò fuori il filmato di un’intervista del 2016 in cui Lively era stata un po’ brusca, e disse che era stata così traumatizzata da voler cambiare mestiere. Poi, vista la gloria che gliene stava derivando nel secolo del vittimismo, ne mise sui social un’altra, ad Anne Hathaway, di dodici anni prima.
Nessuno, poiché gli adulti si sono estinti, le chiese che vita vuota dovesse avere per piagnucolare su un’intervista malriuscita del 2012. Anzi: Hathaway le scrisse una lettera di scuse. Scuse per non si sa cosa, forse per placare la folla dei like, giacché l’unica cosa evidente da quei due filmati era che la norvegese non sapeva fare quel mestiere molto specifico che è l’intervista promozionale agli attori (non so farlo neanch’io pur avendolo fatto per un po’ di anni, signora norvegese: quando vuoi ti racconto di quelli che si sono alzati e se ne sono andati – magari, ci fossero già stati i social, avrei frignato anch’io).
Adesso viene fuori che la norvegese era stata (probabilmente) sollecitata dalla fu pr di Johnny Depp: Blake Lively ha fatto una causa civile a Justin Baldoni, nella quale lo accusa di un po’ tutto, dalle molestie sessuali alla campagna diffamatoria, e a sostegno delle accuse ha ottenuto i messaggi che si scambiavano Baldoni e le pr.
Come succede sempre (specie in Italia, dove se i giornali non pubblicano i documenti dell’accusa è subito attentato alla libertà di stampa), le accuse vengono commentate come fossero sentenze, e quindi ora è tutt’una contrizione di gente che sorella scusami se non ti ho creduto subito.
Solo che quella di Lively contro Baldoni non è, o almeno non solo, la storia di una donna che si rivolge ai giudici per sanare i soprusi subiti da un uomo sul posto di lavoro. È la storia di una donna abbastanza furba da non aver detto una parola per quattro mesi e da far uscire ora i messaggi non gradevoli che Baldoni e i suoi accoliti si scambiavano su di lei. È la storia di una donna abbastanza potente da rendere inspiegabile che la vicenda sia andata come la riassume la sua citazione in giudizio.
Ci sarebbe stata nel corso delle riprese una riunione, pretesa da Lively, in cui lei avrebbe fatto una serie di richieste alla produzione. Tra le quali ci sono cose serie – niente scene di sesso non concordate e analoghe questioni – ma che un’attrice non esattamente alla sua prima esperienza avrebbe trattato e messo per iscritto ben prima dell’inizio delle riprese. È di questi giorni la polemica perché un’attrice ha detto a Variety di non avere voluto un intimacy coordinator sul set di “Anora”: dalle reazioni, sembra abbia detto che è contraria ai sindacati o all’acqua potabile.
Per il mondo dello spettacolo americano, senza intimacy coordinator ormai non puoi girare neanche una stretta di mano: e Blake Lively non ne aveva preteso dall’inizio uno, in un film sulla violenza di coppia? Mi perdonerete se fingo che esistano i fatti e non solo i «ti credo, sorella», ma è una ricostruzione ben strana.
Ci sono, poi, nell’elenco di richieste, punti così ridicoli da rendere il tutto inverosimile: Baldoni doveva promettere di non dire mai più che lui può parlare coi morti e quindi anche col defunto padre di Lively, non doveva più chiederle quali fossero le sue convinzioni religiose né raccontarle le proprie, né chiedere al di lei allenatore quanto pesasse, né andare a piangere nella di lei roulotte.
Ora, io capisco che stiamo parlando di americani, la società che fa da modello al ritardo mentale contemporaneo, però se uno viene a piangere nella mia roulotte forse posso avere abbastanza carattere da dirgli di levarsi dai coglioni anche senza far mettere per iscritto che non può farlo. Oppure no, perché non esistono i fatti, e quindi anche che io sia una donna di potere moglie di un miliardario non conta niente, nella dinamica relazionale.
La principale accusa è quella di averle chiesto di girare una scena di parto mezza nuda, e di averle presentato l’attore che faceva il ginecologo come «il mio migliore amico». Non è chiaro se sia stato a quel punto, o dopo, o prima, che Lively ha voluto che sul set ci fosse il marito Ryan Reynolds. È abbastanza bizzarro anche pensare che Baldoni dovesse vederselo lì, per ricordarsi che era la moglie di Ryan Reynolds.
Naturalmente Baldoni ha dichiarato che è tutto falso, e naturalmente Lively ha detto che spera che la sua azione legale possa «aiutare a proteggere altre che siano vittima di ritorsioni sul lavoro». Ettepareva che non lo facesse per gli altri.
Leggo sul New York Times che, nel mezzo dei bisticci, con l’appoggio della Sony (che distribuiva il film, prodotto dalla Wayfarer di Baldoni), Lively ha ottenuto di poter proporre un proprio montaggio del film. Al quale ha pure aggiunto una canzone di Taylor Swift (sono amiche). Ed è quella la versione che è uscita nei cinema, e a quel punto Blake Lively era – ovviamente – anche accreditata come produttrice. E questo è il dettaglio rispetto al quale tocca chiedersi se la ritorsione sia un fatto o un’interpretazione.