Io non vorrei scrivere la duemillesima pagina sul vostro non aver capito come funzionino né la libertà d’espressione né la mancanza di rispetto.
Io non vorrei scrivere il terzo articolo di fila con le parole “Tony Effe” nel titolo, non foss’altro perché vorrei sempre e solo scrivere cose che abbiano senso anche per chi dovesse leggerle tra cinquant’anni, e chi sia Tony Effe ce lo dimenticheremo più velocemente di quanto abbiamo scordato il pizzaiolo del primo “Grande Fratello”.
Io non vorrei occuparmi di gente che fa canzoni che ascoltano i vostri figli su Spotify, perché le canzoni del momento non le ascoltavo quando la ventenne ero io, e tengo molto a evitarle ora che i ventenni hanno meno della metà dei miei anni. E non vorrei neanche occuparmi del capodanno in piazza, un’abitudine da dementi quanto il centro commerciale il sabato pomeriggio: chissenefrega di cosa ascolta quella fascia di pubblico lì, i brutti, i poveri.
Il capodanno di otto anni fa ebbi la scemissima idea di dire a Repubblica che sarei andata a osservare la folla che andava a vedere Zalone, il cui film “Quo vado?” usciva il primo gennaio e quindi veniva proiettato per la prima volta qualche minuto dopo la mezzanotte all’Odeon di piazza del Duomo, a Milano. Chi ha la fortuna di frequentarmi sa che sono otto anni che parlo di quella serata come i nostri nonni raccontavano della guerra, come nei film americani i veterani raccontano del Vietnam.
In piazza non si potevano introdurre bottiglie, e per fare in modo che non accadesse si poteva entrare solo dai varchi ai quali c’erano agenti per perquisirti la borsa. Ci avevo messo mezz’ora a riuscire a trovare il varco giusto e arrivare all’Odeon, e poi lì c’erano quelli col loro bravo schiumante: ero furibonda. E poi tutto quel paese reale chi l’aveva mai visto, coppie al loro primo capodanno senza figli, turnisti lì perché il primo gennaio lavoravano e non volevano fare troppo tardi, gente che comprava panettoni al bar del cinema.
Era la prima (e ultima) volta nella mia vita adulta che uscivo di casa la sera del 31 dicembre, ed era tutto raccapricciante come me lo aspettavo (il film no, era quello del posto fisso, era stupendo, anche educativo: scopro dal mio articolo d’epoca che, rieducati da Zalone che in Norvegia apprende il senso civico, gli spettatori portavano via i resti dei popcorn dalla sala).
Figuriamoci cosa sarà un capodanno romano, e figuriamoci cosa me ne può importare dell’annosa vicenda della cancellazione di Tony Effe dal concerto del Circo Massimo, che nelle ultime ore ha causato alcune reazioni che non esaustivamente vado a elencare.
Altri hanno annunciato che, in solidarietà, non si sarebbero esibiti neanche loro. La defezione di Mara Sattei (chiunque ella sia) l’ho appresa dal tweet d’una testata che scriveva «Ora tutti e tre gli artisti di punta non ci saranno». Mara Sattei artista di punta. Pensa gli altri.
La prima rinuncia è arrivata da Mahmood, e io vorrei che ci fermassimo a riflettere sul fatto che il miglior autore di canzoni tra quelli ancora in servizio, uno che ha scritto “Soldi” che da sola vale l’intera discografia di alcuni bravini (non dei Tony Effe, che sarebbe facile: dei bravini), uno così debba dire non che lui al Circo Massimo non canta perché oltre a lui ci sono solo dei derelitti e non si mescola, ma perché la-libertà-d’espressione-di-Tony-Effe (poi ci torniamo).
Una cosa che accomuna quasi tutte le reazioni è la scoperta che questa gente – i Migliacci e i Fossati di questo secolo (vabbè) – non sa l’italiano. Le dichiarazioni sono scritte con una sintassi da bocciatura in terza elementare. Quella di Emma Marrone contiene l’accusa di «privare un ragazzo di esibirsi nella sua città». Credevo che la categoria più analfabeta fossero gli addetti stampa, e invece – porelli – almeno finché c’erano loro, a scrivere i comunicati agli artisti, ci veniva risparmiato l’analfabetismo diretto.
Intanto, sugli stessi social, le ragazze s’indignano. S’indignano perché sono analfabete quanto le cantanti ma, su una base di solida ignoranza, qualcuno ha insegnato loro la parola «patriarcato», e allora come potete difendere un misoginoooo, chiedono fotografando passaggi di testi che fino a tre giorni fa nessuno conosceva. Un po’ perché di questi derelitti non vale la pena conoscere i testi, e un po’ perché: ce l’avete presente come pronuncia le parole Tony Effe? In confronto Zerocalcare ha fatto anni di logopedia. Per capire cosa diceva in quella canzone sulla Ferragni, l’avrò dovuta ascoltare cento volte (amerei che fosse un trucco per moltiplicare gli streaming: lui scandirebbe tipo Vittorio Gassman, ma mastica le parole acciocché noialtri siamo costretti ad ascoltarlo dieci volte invece di una).
La libertà d’espressione non c’entra niente. Non è che non poter cantare per il comune di Roma significhi non potersi esprimere: significa semplicemente non poter cantare in quel posto lì quella sera lì. Chiamare tutto «censura» è come chiamare tutto «maschilismo»: le parole si slabbrano, si deprezzano, poi non le riesci più a usare efficacemente quando ti servono davvero.
Però certo che chi ha a cuore il senso ultimo della libertà d’espressione, cioè la difesa degli indifendibili (De André si difendeva da solo, lo difendeva la qualità delle sue opere: è il cialtrone che non sa scrivere una cosa in metrica, quello che ti tocca difendere in nome del principio), certo che noi quattro che ancora sappiamo distinguere tra una canzone e una proposta di legge diremo «Ma pensate veramente che il vostro moroso v’ingiunga di chiudervi in casa perché gliel’ha suggerito una canzone? Pensate che Ferribotte avesse ascoltato “Teorema” di Ferradini?». Certo che diremo: ma lasciate in pace Tony Effe.
Al massimo lo diremo avendo come sottotesto quella vecchia vignetta di Angese. «Gli ho detto all’avvocato Agnelli che il mio stipendio non si tocca» «E lui?» «E lui mi ha detto: e chi lo tocca, a me mi fa schifo anche a guardarlo».
È sempre più spiccato il parallelismo tra Leonardo Caffo e Tony Effe, due riempipista dei quali nessuno si ricorderà tra qualche anno, ma uno dei quali di grande (e deprimente) successo attuale. Io continuo a ridere ripensando a Lorenzo Jovanotti che dice alla Fagnani che a Mozart “Sesso e samba” non sarebbe dispiaciuta, anche se magari avrebbe suggerito di non farla tutta su un accordo solo. Mi chiedo quanto mi farebbe più ridere se “Sesso e samba” l’avessi mai sentita. (Questo è il punto in cui non mi crede chi non mi conosce e non sa quanto sono brava a schivare il contemporaneo. Aiuta non ascoltare la radio e non frequentare sale d’attesa, supermercati, taxi, e tutti quei posti in cui t’arriva addosso la musica del presente).
Sarebbe bello se, per chiudere il cerchio dello scandale du jour, il comune di Roma trasformasse il concerto senza più cantanti in un reading di poesia. Sui social tempo fa si trovavano i versi di Leonardo Caffo. Invece di cantare i propri testi, Tony Effe può far arrivare la mezzanotte declamando la poesia caffiana intitolata “Comunque”. Fa così: «Comunque, ripensavo. L’albero a cui tendesti la pargoletta mano, credo, non era il dolce melograno: direi la minchia dello zio Gaetano».
Adattissima per il veglione anche “Campa, nel campo”, quella che ci dice che «Oltre le percezioni – di giusto e di ingiusto – c’è un campo… Là, ci si incula senza scampo». A quel punto, se non ha già impegni in qualche capodanno medio riflessivo milanese, farei salire sul palco romano Vittorio Lingiardi, che può fare un’intervista doppia a Tony e Leonardo sulla fase anale.
Secondo me, è un capodanno perfetto per le ragazze che attualmente vogliono Tony Effe al 41bis e passano le giornate a dirlo sui social invece che a comprare i regali. Oddio, però forse le donne del Partito democratico protesterebbero col cancelletto #tuttimaschi. A questo punto un comico bravo, uno Zalone meno vile di me, direbbe che la prevalenza maschile possiamo risolverla dedicando il capodanno a Giulia Cecchettin. Ma io non ci penso neanche: poi mi toccano le notifiche di chi pensa che sia irrispettosa la mia battuta, mica il gesto furbo di dedicare le fiere alle vittime di cronaca nera.