Vestivamo alla nizzardaIl gran ritratto di John Elkann che i giornalisti italiani non hanno mai saputo fare

Beatrice Parrino ha pubblicato su Le Point un servizio di tredici pagine sul nipote di Gianni Agnelli. Un lavoro enorme, pieno di aneddoti, spie russe, ceffoni, grappini con Musk, e tante altre cose che in più parti ricordano “Succession” (peccato manchi la leggenda su Giannini)

Lapresse

Nella pagina on line di Le Point in cui è ospitata una sua breve biografia, Beatrice Parrino ha fatto scrivere una spiritosaggine (scrivere spiritosaggini nelle proprie note biografiche è un viziaccio, ed è difficilissimo toglierselo). Non ha, c’è scritto, saputo scrivere la parola “salade” (insalata) fino all’adolescenza, «il che è disdicevole per una nizzarda».

Per fortuna Beatrice Parrino da Nizza non ha deciso di fare l’autrice comica ma la giornalista economica, e questa settimana ha trasformato Luigi Mangione da eccezione in tendenza: i notiziari di questo dicembre sono dominati da non italiani con nomi e cognomi italiani e sopracciglia foltissime.

Parrino, diversamente da Mangione, non ha ammazzato nessuno. Ha solo ritratto John Elkann per tredici pagine (dieci, se si escludono quelle esclusivamente fotografiche) del settimanale per cui lavora. Tredici pagine in cui c’è chiunque, a raccontare Jaki (che Beatrice è molto stupita che qualcuno chiami Jaki, e che la J non venga pronunciata alla francese): dal capo di Hermès alla capa della Banca Centrale Europea, passando per gli anonimi che naturalmente dicono le cose più succulente.

Ci sono ampie parti economiche, che io ho saltato perché figurarsi se provo a capire cose serie come i numeri; e ampie parti sul giuoco del calcio, che ho saltato per non perdere punti di quoziente intellettivo: se ci tenete ai conti o alla Juve e leggete il francese, potete dare sei euro e novanta a Le Point e scaricarvi il numero. Io intendo occuparmi degli altri dettagli, e l’unico numero che mi interessa è: quanto ci ha messo?

Quanto ci si mette a fare quel che i giornalisti italiani non hanno mai avuto voglia di fare – un ritratto pieno di roba, mica un’intervista botta e risposta in cui devi far sembrare brillante ogni risposta di intervistati perlopiù analfabeti – e che i giornali italiani non hanno più i soldi per darti il tempo di fare? (I giornali italiani hanno sempre avuto la tendenza «presto e male», ma certo questo secolo non aiuta).

E, se ci dessero due mesi per lavorare a un solo articolo, sapremmo farlo? La settimana scorsa leggevo un’italiana che, in coda a una newsletter, diceva che finora è stata gratuita ma adesso ha deciso di permettere ai fortunati lettori di darle dei soldi giacché «ci lavoro con giorni d’anticipo». Il tutto in coda ad alcuni penzierini che nessuna persona che di mestiere scriva (ma anche: nessun adulto, pure se fa il dermatologo o il barista) può metterci più di venti minuti a comporre.

Nel 2017 Hbo fece un notevolissimo documentario su Gianni Agnelli (si vede ancora su Sky), e io passai settimane a chiedere a tutti perché diavolo un documentario sul più portentoso personaggio del Novecento italiano lo facessero gli americani (non ottenni una risposta soddisfacente).

Nel 2024 una giornalista francese fa un ritratto del nipote di Gianni che non si legge su nessun giornale italiano, e la risposta forse è: se mandi un italiano a intervistare John Elkann, quello si sbriga in un’oretta; la scrive presto e male, a botta e risposta, sul taxi che lo porta dall’intervista all’ospitata televisiva tramite cui quella sera deve vendere il suo nuovo libro (siamo pure sotto Natale, se non piazzi il tomo adesso, quando).

Elenco, non esaustivo, di apparizioni nel ritratto franzoso del proprietario semi-italiano d’un sacco di roba (in ordine crescente d’importanza: da Repubblica a Louboutin).

Forse Carlo Rovelli, ma non è specificato: il pezzo comincia con John che consiglia all’intervistatrice «un libro di fisica», specificandole che «è alla sua portata, l’ha letto mio figlio» (i figli di John Elkann hanno diciassette e diciott’anni; la Parrino tuttavia non si offende, non solo perché è pur sempre una che faceva fatica a sillabare “salade”, ma anche perché qualche pagina più avanti gli adolescenti le diranno che leggono l’Economist e La Stampa: da piccoli erano interessati solo alla Gazzetta, e allora mamma e papà gliela facevano guardare solo se erano in grado di riassumere tre articoli della Stampa).

La proprietaria della libreria parigina che a quel punto chiede a Elkann se sia il figlio di Alain. Nessuno – non la libraia, non John, non la Parrino plausibilmente ignara – precisa: quello dei lanzichenecchi.

Un altro libraio che, poiché i turisti italiani chiedono a Elkann autoscatti e varie amenità, gli domanda se sia un calciatore o uno del cinema.

Un bambino di sei anni che gli dice che non dorme da quando ne aveva tre e Ronaldo se n’è andato dalla Juve.

Axel Dumas, capo di Hermès, che se ne esce con un sobrio «Passare del tempo assieme a John è una lezione di modestia» (alla Parrino piacciono molto i lirismi: l’articolo si chiude con Giovanni Soldini che racconta che una volta John ha sfidato il mare perché doveva andare a prendere un aereo e non voleva rimandare: a quel punto l’articolo finisce senza che nessuno chieda cosa sei ricco a fare, se non puoi far tardi).

Warren Buffett e Sergio Marchionne, a mezzo due anonimi («un testimone» e «un anziano») che raccontano di quando, quasi vent’anni fa, il giovane Elkann si trovò nelle pesti con General Motors, e allora Buffett avrebbe detto che «una battaglia legale sarebbe molto malvista negli Stati Uniti», e allora ci fu una riunione alla quale gli americani si fecero attendere tre ore perché, spiegò Marchionne, «c’è il Super Bowl», e alla fine però staccano un assegno, «un miliardo e cinquecentocinquanta milioni per non comprarci: pensa quant’era marcia la merce».

Ermenegildo Zegna, che racconta di quando Elkann, quasi dieci anni fa, tenne un discorso «dicendo che solo quarantaquattro imprese familiari su un milione attraversano il secolo, e che una su un miliardo dura due secoli». Ah, quindi lo sa che per un’azienda è già un miracolo sopravvivere alla seconda generazione di ricchi, figuriamoci alla quarta.

Jeff Bezos, che richiama la Parrino sul tardi (quei dettagli che si aggiungono solo perché i carneadi che al massimo intervistano cantanti e sottosegretari dicano ma tu guarda questa stronza si fa richiamare da Bezos e io qui senza meritocrazia), e le dice che non si ricorda se a presentargli John sia stata la sua amica Diane von Fürstenberg. E anche che «la finezza e il rigore delle sue analisi sono impressionanti» (inizio a pensare che John Elkann debba fare causa ai giornali italiani, sui quali non m’è mai sembrato non dico un genio ma neanche uno particolarmente a suo agio con le parole: sarà perché qui le sue interviste vengono scritte in fretta?).

Fabiola Gianotti, che l’ha invitato ai settant’anni del Cern, giacché Elkann li ha finanziati dopo che lei gli aveva detto d’aver difficoltà coi fondi: lui le aveva fatto delle vaghe promesse, poi era pure morto Marchionne e insomma aveva altro da pensare, ma «che siano promesse grandi o piccole, John le mantiene» (qui è dove Maurizio Costanzo sarebbe sbottato: stàmo a fa’ ’r santino).

Elon Musk, evocato in una cioccolateria torinese (ovviamente salvata da John dal fallimento), come il destinatario d’una specie di regalo: «Il fondatore di Tesla aveva ricevuto una valigia d’argento nella quale aveva c’erano sette capsule e una missione: seminare il prezioso contenuto – fave di cacao della Colombia e nocciole del Piemonte – su Marte. La risposta del capo di SpaceX, esposta nel negozio, è: “Ad astra”. Cosa non si farebbe per un amico» (questo è il momento in cui ho pensato a quella direttrice che molti anni fa mi chiese di andare a lavorare per lei con la frase «Voglio fare People, ma scritto come il New Yorker»: Parrino fa il New Yorker, ma scrivendolo come People).

C’è anche la volta in cui si ubriacano sulle rive della Senna, John e Elon, perché sono tutti e due a Parigi, il forestiero ha il jet lag e vuole vedere l’ambasciata del Sudafrica, l’Elkann ha una bottiglia di grappa, e sapete come va tra multimiliardari (no, non lo sapete; neanch’io).

E poi c’è la parte già molto ripresa ieri dai giornali italiani, che non hanno la tempra per parlare della famiglia Agnelli in proprio ma sono sempre lieti di nascondersi sotto le gonne della stampa straniera: la questione ereditaria, la rottura tra Margherita Agnelli e i suoi primi tre figli.

Il personaggio migliore, da un punto di vista romanzesco, è Serge de Pahlen, secondo marito di Margherita e padre degli altri suoi cinque figli. Forse spia del Kgb, cosa che a Parrino smentisce una fonte di famiglia («e secondo lei Gianni avrebbe potuto non saperlo?», ma anche: «era una cosa che dicevamo per ridere») ma che è stata anche scritta nel saggio “Amici di Putin” (La nave di Teseo). Putin che compare, «prima che fosse Putin», in un ricevimento a Villar Perosa, a Gianni ancora vivo.

John Elkann descrive una madre che, all’idea di non aver ragione in una discussione, diventa violenta, e il secondo matrimonio peggiora la situazione: i figli di primo letto sono un fastidio. Parrino chiede: schiaffi? Elkann risponde: «Peggio. Più di tutti, a subire è stato Lapo».

Viene in mente quella scena di “Succession” in cui Roman rievocava quando veniva chiuso in una gabbia, e i fratelli dicevano «Ma ti piaceva». O quella in cui, già adulto, il padre gli fa saltare un dente con un manrovescio. Nessuna delle due cose viene mai più menzionata, perché “Succession” sapeva che il suo lavoro non era fare tre puntate di melodramma sui genitori disfunzionali, ma disseminare le vite di mostruosità che diventano la norma.

«Se John e Ginevra vogliono parlarne, sono evidentemente liberi di farlo. Io preferisco tenerlo per me», risponde Lapo a Beatrice a proposito delle eventuali violenze materne. E buttato lì, in una riga in levare come fosse “Succession”, c’è questo quadretto di Jaki che dopo la separazione fa da mamma ai fratelli, li porta dal dentista, gli fa dire le preghiere, gli prepara la valigia. Spero che ti paghino benissimo, Beatrice.

L’unico aneddoto che manca a questo ritratto – che praticamente finge che Repubblica non esista – è la leggenda secondo cui, al momento di sostituire Maurizio Molinari, qualcuno avrebbe detto «La persona perfetta è Giannini», e John, che non avrebbe enorme stima di Massimo Giannini, avrebbe risposto «Non c’è un Giannini che non sia Giannini?»: e Orfeo fu.

È sicuramente una storia falsa, e sono certa che John darebbe un’intervista altrettanto ricca a Giannini. Avrà provato a dargliela anche ieri, non ricevendo risposta giacché Massimo Finzi Giannini era impegnato, «con grande dispiacere e rammarico», a lasciare la chat del 25 aprile, che «nel tempo si è irrimediabilmente perduta». Mentre componeva il suo lirico messaggio, Giannini avrà visto una chiamata da numero anonimo e, ignaro che fosse John pronto a offrirgli succulenti aneddoti e un cicchetto di grappa in riva alla Senna, avrà pensato fosse qualcuno che voleva chiedergli a che ora fosse la rivoluzione, e se si dovesse venire già mangiati.

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