È stato un Consiglio europeo di transizione quello svoltosi ieri (19 dicembre) a Bruxelles, l’ultimo dell’anno. In queste settimane in cui il 2024 cede il testimone al 2025, su entrambe le sponde dell’Atlantico sta avvenendo un importante passaggio di consegne: tra Charles Michel e António Costa alla guida della più importante tra le istituzioni dell’Unione europea, e (il prossimo 20 gennaio) tra l’amministrazione di Joe Biden e quella di Donald Trump alla Casa Bianca. Pur se difficilmente assimilabili, si tratta di due avvicendamenti paralleli ai vertici dei due principali alleati occidentali dell’Ucraina, ad un paio di mesi dal terzo anniversario dell’inizio dell’invasione russa su larga scala lanciata da Mosca nel febbraio 2022.
O, per dirla tutta, dopo più di quattromila giorni dall’inizio della campagna neo-imperialista di Vladimir Putin nell’ex repubblica sovietica, avviata a inizio 2014 con l’annessione unilaterale della Crimea e lo stanziamento di truppe nelle oblast’ separatiste del Donbas. Proprio quella penisola nel Mar Nero in cui, come certificato sempre ieri dall’Eurocamera riunita in sessione plenaria a Strasburgo, da undici anni la potenza occupante continua a perpetrare «significative violazioni dei diritti umani», in particolare nei confronti dei tatari, e ad incarcerare giornalisti, attivisti, oppositori politici e difensori dei diritti umani.
All’ultimo summit dei capi di Stato e di governo dei Ventisette prima del nuovo anno (il prossimo Consiglio europeo è in calendario per il 20-21 marzo, mentre ci sarà un incontro informale a inizio febbraio) c’era anche Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino era a Bruxelles già dalla sera prima, per partecipare a una cena nella residenza del Segretario generale della Nato, Mark Rutte, insieme ad altri leader nazionali (tra cui la premier italiana Giorgia Meloni), a Costa e alla presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen.
Sia alla riunione informale che al vertice, Zelensky ha incassato l’impegno europeo a sostenere la resistenza di Kyjiv «per tutto il tempo e con ogni mezzo necessario». Almeno sulla carta. Nelle conclusioni riguardanti l’Ucraina, il Consiglio europeo ha chiesto di «intensificare urgentemente gli sforzi» per rifornire il Paese aggredito dei sistemi d’arma di cui necessita, «in particolare per quanto riguarda la fornitura di sistemi di difesa aerea, munizioni e missili, nonché la fornitura della formazione e dell’equipaggiamento necessari alle brigate ucraine». Zelensky ha quantificato in diciannove batterie antiaeree il fabbisogno minimo per proteggere le infrastrutture energetiche dai costanti bombardamenti russi.
Il ragionamento, a Bruxelles, è quello espresso nelle parole dell’Alta rappresentante Ue per la politica estera Kaja Kallas al suo arrivo al vertice: «Qualsiasi spinta troppo precoce ai negoziati sarà in realtà un cattivo affare» per Kyjiv, e dunque, come enfatizzato anche dal presidente lituano Gitanas Nauseda, «dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre mani per sostenere l’Ucraina e renderla forte e, solo allora, procedere al tavolo delle trattative», pena l’ottenimento di «una pace ingiusta e insostenibile».
O, come ha sottolineato lo stesso Zelensky incontrando i giornalisti al margine dei colloqui con i leader dei Ventisette, dell’ennesimo «conflitto congelato» nel cosiddetto spazio post-sovietico. Ora, la differenza tra un cessate il fuoco raffazzonato frettolosamente e una pace stabile e duratura sta tutta, come ripete da mesi il presidente ucraino, nelle «garanzie di sicurezza» che potranno essere offerte a Kyjiv contro futuri attacchi da parte di Mosca. «Vogliamo porre fine alla guerra, vogliamo la pace», ha insistito il capo di Stato, «ma dobbiamo avere le garanzie di sicurezza che ci aiuteranno a proteggerci domani». Il rischio di alzare bandiera bianca adesso senza una solida pianificazione di cosa accadrà nel day-after la cessazione delle ostilità è di fare il gioco di Putin e permettergli di riorganizzare le forze per invadere nuovamente «tra sei mesi, un anno, due anni».
Le discussioni tra le cancellerie occidentali sono in corso da qualche tempo. Non alla luce del sole, naturalmente. Lo stesso Zelensky ha ammesso di non poterne «discutere pubblicamente» poiché «non c’è ancora una decisione» definitiva in merito, ma ha indicato ai cronisti che «c’è una certa volontà politica e la totale comprensione che Putin è pericoloso e non si fermerà» quando gli ucraini smetteranno di sparare. A meno, appunto, delle famigerate garanzie, che come tutti i deterrenti devono essere solide e credibili per svolgere pienamente la loro funzione.
Ora, dato che il neo-rieletto Donald Trump ha millantato di poter mettere fine al conflitto «in ventiquattr’ore» e, soprattutto, ha segnalato esplicitamente di voler sfilare Washington dal buco nero che rischia di diventare l’Ucraina – il terrore di invischiarsi in un «Afghanistan 2.0» è evidente nel presidente che ha architettato (si fa per dire) il ritiro statunitense da Kabul – e di voler lasciare in gestione agli europei la sicurezza del loro continente, è evidente che toccherà ai Ventisette di tirare fuori dal cappello una soluzione per impedire a Putin di mangiarsi anche il resto dell’ex repubblica sovietica.
Ci stanno già pensando, pare, il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro polacco Donald Tusk, i quali avrebbero elaborato una proposta per un’operazione multinazionale di peace-keeping, centrata intorno ad una forza di interposizione composta da qualche decina di migliaia di uomini e da dispiegare lungo la linea del fronte, qualunque essa sia.
Eppure, nemmeno lo stesso Zelensky sembra fidarsi troppo di questa proposta. «Credo che le garanzie di sicurezza europee non saranno sufficienti per l’Ucraina», ha scandito in conferenza stampa, ribadendo un concetto già espresso nei mesi scorsi: «Per noi la vera garanzia, ora o nel futuro, è la Nato», ha ripetuto, aggiungendo che «la Nato dipende dalle decisioni prese da europei e americani».
Insomma, sembra non esserci deterrente migliore dell’articolo 5 della Carta Atlantica. E così il presidente ucraino non molla la presa sul tycoon newyorkese, anzi prova a tirarlo per la giacca: «Trump è un uomo forte ed è molto importante averlo dalla nostra parte» affinché «ci aiuti a fermare la guerra»: «Conto di avere tempo per parlare, pensare, ascoltare la sua visione e mostrargli la nostra», ha spiegato, perché «è molto difficile sostenere l’Ucraina senza l’aiuto degli Stati Uniti». Il suo messaggio, consegnato ai microfoni dei media al suo arrivo al Palazzo Europa ieri mattina, è semplice: «Solo se uniti, Unione europea e Stati Uniti possono sconfiggere Putin».
Siamo sempre lì. Per tutte le altisonanti profusioni d’impegno delle cancellerie europee, la realtà è che, se Washington dovesse staccare la spina, i Ventisette difficilmente sarebbero in grado di aumentare così tanto i loro aiuti – militari, soprattutto, ma anche finanziari – a Kyjiv per compensare la defezione e non lasciar soccombere gli ucraini di fronte alle armate russe e, ora, pure nordcoreane. È la diagnosi, amara, che ha consegnato alla stampa anche il presidente lituano Nauseda. «La situazione è davvero complicata e dobbiamo essere onesti con noi stessi», ha ammesso, aggiungendo che «dobbiamo essere davvero un attore strategico globale» ma che «possiamo diventarlo solo se ci impegniamo a prendere decisioni invece di parlare, parlare, parlare».
Ma anche se gli Stati membri avessero effettivamente le capacità per produrre in tempi rapidi quello di cui l’Ucraina ha bisogno (spoiler: non è così), avrebbero la determinazione politica per farlo? Solo lo scorso lunedì, i Ventisette non sono riusciti a raggiungere l’unanimità per imporre delle sanzioni sui quadri del governo georgiano e delle forze di polizia che picchiano brutalmente i manifestanti a Tbilisi. A incrinare il fronte comune europeo (o qualcosa che vi possa somigliare) sono stati anche ieri i leader ultranazionalisti e filorussi di Ungheria e Slovacchia, Viktor Orbán e Robert Fico.
Mentre il primo ha proposto una «tregua natalizia» con annesso scambio di prigionieri per farsi rispondere da Zelensky che «non ha alcun mandato per negoziare perché le sue relazioni con Putin sono troppo cordiali», il secondo sta facendo la voce grossa con Kyjiv perché, allo scadere dei contratti con Gazprom per il transito del gas russo via Ucraina (cioè alla fine dell’anno), Bratislava sarà costretta a spendere più soldi in approvvigionamento energetico. Nel dubbio, il premier slovacco ha ripetuto che, per quanto lo riguarda, la porta della Nato rimane chiusa per l’Ucraina.