Curare le radiciColtivare un sogno, con la delicatezza di BLUEM

Nel panorama musicale italiano trovare il proprio spazio implica una costante negoziazione tra integrità e compromessi. Il progetto musicale di Chiara Floris è una riflessione sulla propria identità, senza perdere il contatto con la realtà

BLUEM. Ph Jasmine Farling. Courtesy of the artist

Classe 1995 Chiara Floris, in arte BLUEM, è una giovane produttrice e cantautrice sarda. L’artista ha realizzato due album “NOTTE” (2021) e “nou” (2023) con brani che spaziano tra elettronica e folk. L’abbiamo raggiunta telefonicamente per parlare del suo percorso artistico, tra Londra e la Sardegna.

Come è nato il progetto musicale BLUEM?
È cominciato tardi rispetto a quando una persona inizierebbe a scrivere canzoni. Ho studiato come chitarrista tutta la vita, poi ho progressivamente abbandonato lo strumento. Adesso lo sto riprendendo, però lo studio universitario me l’ha fatto rifiutare. Ho sempre voluto scrivere canzoni, ma ero una persona molto timida e introversa; quindi, ci ho messo del tempo per dirmi “ok, lo faccio”. Soprattutto cantare, e farlo di fronte a un pubblico. Ho iniziato a scrivere per il progetto intorno ai 21 anni: scrivevo in inglese inizialmente perché ho abitato a Londra per dieci anni, fino allo scorso febbraio. Ho iniziato a scoprire la nuova scena italiana quando ho iniziato a farne parte. Il momento è arrivato dopo un po’ di lavori, e un po’ di crisi: lavoravo anche full-time nella ristorazione. Un giorno ho deciso di prendere una settimana di ferie per scrivere un brano al giorno. Così è nato il mio primo album, “NOTTE”. I brani hanno i nomi dei giorni della settimana, che era come li avevo appuntati mentre li stavo scrivendo.

BLUEM Ph. Valeria Cherchi. Courtesy of the artist

Hai parlato di questa “insofferenza” nei confronti del mondo accademico. Qual è stato il momento in cui ti sei riavvicinata alla musica e hai trovato la tua cifra stilistica?
Allora secondo me è stato molto utile (il percorso accademico, ndr) perché a livello di nozioni ho interiorizzato tanto. Non sono mai stata una brava studentessa: il mondo accademico e il modo in cui funziona non ha mai fatto per me. Ho tempi diversi: sono molto curiosa per certe cose, altre invece non mi interessano. E purtroppo c’è da dire anche che molti insegnanti non sono appassionati, non hanno quella vocazione. Io l’ho visto nelle università che ho fatto a Londra, dove capita di trovare persone che avrebbero voluto fare musica e non ce l’hanno fatta.

Anche confrontarti con quella frustrazione e con quel modo di insegnare risentito nei confronti dei propri studenti che sono ancora giovani e che potrebbero ottenere qualcosa non è semplice. Ho avuto un insegnante che in un esame scrisse di me che non avevo assolutamente nessun talento e nessuna possibilità di fare niente nella musica. Ricordo che quella cosa mi ferì molto. Il sistema accademico mi ha fatta spesso sentire incompresa: io sapevo di avere qualcosa e sapevo anche di poterlo tirare fuori. Alla fine del terzo anno mi sono laureata in musica per film, e quel momento mi ha introdotto anche alla produzione. Sono stata molto meglio anche a livello psicologico e ho iniziato a creare il mio progetto perché mi sentivo di star studiando qualcosa che mi interessava, e in cui andavo bene. Da quel momento sono riuscita anche a scrivere e a dedicarmi alla composizione con più tranquillità.

Come ti poni ora nei confronti delle persone che non hanno creduto nel tuo progetto? Hai sentito di dover dimostrare qualcosa a qualcuno?
No, quello per fortuna l’ho sempre avuto più nei confronti di me stessa che degli altri, anche se certe cose ovviamente mi hanno fatta stare male. Poi mi sono seduta con me stessa, e ho detto “che cosa vuoi fare?”. La mia più grande fortuna è avere una forte visione; la certezza che io certe cose le devo fare. Una vocazione, diciamo. Forse un po’ esagerato detto così però io avevo questa cosa in me; quindi, anche con i commenti più crudeli o negli scenari in cui mi sono sentita più inadeguata c’era una luce in me che mi diceva “facciamo questa cosa”. È stato un confronto con me stessa nel dire “lasciamo perdere e iniziamo qualcosa con intenzione”, però c’è voluto tanto. Lo scrivevo anche su Instagram: quando ho finito l’università sono tornata in Italia pensando che avrei provato a fare musica. Dopo un mese, sono rientrata a Londra perché sentivo che mi mancava qualcosa. Sia a livelli di disciplina, sia di rapporti umani. Così ho lavorato cinque anni nella ristorazione. Chiaramente l’ho fatto perché mi dovevo mantenere, ma anche perché volevo proprio fare un lavoro normale, essere a contatto con la gente, avevo bisogno anche io di capire com’era. Ho avuto la fortuna di potermi concentrare in quello che volevo durante gli studi, e poi invece dopo ho capito che avevo bisogno di “farmi il mazzo”. Quindi prima di scrivere altra musica con intenzione ho fatto questo percorso, che è stato anche molto frustrante, però mi ha dato tantissimo.

BLUEM. Ph Jasmine Farling. Courtesy of the artist

Perché hai deciso di tornare in Italia?
Non sono tornata perché mi sento più a mio agio qui, ma perché sono cambiate le mie priorità: quando ero a Londra stavo continuando a lavorare. Ho fatto tutto il primo tour lavorando full time come assistant manager a Londra, e poi viaggiavo quando potevo. Ho fatto il secondo disco lavorando da remoto con varie persone, con artisti inglesi e ragazzi italiani, poi a febbraio ho detto basta, sentivo di dover fare una crescita a livello artistico. Così sono tornata in Sardegna. Non volevo andare a Milano: per il poco che l’ho vissuta non mi è mai piaciuta. Ci sono delle persone con cui mi trovo bene, ma l’idea di essere inglobata in quell’ambiente non mi piaceva per niente; ho preferito tornare a casa. Alla fine, penso sia stata una buona decisione. Quando ero all’università ho suonato tantissimo in vari concerti come chitarrista, mentre di recente (2024) ho fatto il mio primo concerto là come progetto BLUEM.

Come hai deciso quale percorso seguire per dare forma al tuo progetto?
Se avessi voluto avrei già potuto fare delle cose che mi avrebbero fatto crescere molto di più in Italia. All’inizio ho avuto una buona attenzione, le opportunità che mi si sono presentate davanti mi avrebbero garantito un percorso standard. Sono io che ho detto di no a molte cose perché ho un’idea diversa, e mi vorrei confrontare con un pubblico più vario, europeo. Il percorso standard dell’artista in Italia è limitato, soprattutto per le donne, perché ci sono molti meno spazi. Sembra sempre che ti debba odiare, che ti debba prendere a pugni per ottenere qualcosa. Ed è frustrante. Io l’ho vissuto, lo vivo, però cerco di mantenermi salda al mio percorso. Vedo molti colleghi che scelgono di prendere scorciatoie, fare compromessi, e il risultato non mi piace. È una scelta che non rappresenta.

BLUEM. Ph. Valeria Cherchi. Courtesy of the artist

Nei tuoi brani dai molta importanza alle voci, come in “VENERDÌ”, dove si sente quella di tua nonna.
Per me la parola è sempre stato un mezzo comunicativo, come lo è l’immagine. Ho varie cose che mi aiutano a comunicare. Non mi definisco un’artista prettamente musicale: se non ci fosse il resto il mio progetto non avrebbe lo stesso senso. Per quanto riguarda le parole io ho sempre scritto, già da piccolina. Ho sempre avuto un’attitudine alla scrittura, molto prima anche di scrivere canzoni. Io sono anche rimasta un po’ introversa, un po’ timida. Faccio molta attenzione a come comunico le cose che voglio dire. Sono fan del minimalismo: non eccedo mai, non scrivo mai troppe parole, non cerco il concetto complesso, come anche non faccio arrangiamenti troppo complessi. Io ho bisogno di pochi suoni, pochi concetti espressi bene. E questo è il modo in cui io riesco a comunicare.

Perchè nella tua musica dedichi spazio anche alle storie degli altri?
È successo spontaneamente con il primo disco “NOTTE”. Confrontandomi anche con il produttore e musicista Simone D’Avenia con cui ho fatto la post-produzione. Avevamo in comune un’amica che un giorno mi ha mandato un messaggio molto toccante, perché aveva appena avuto un aborto spontaneo, una cosa abbastanza lacerante. Io avevo già scritto “MARTEDÌ”, avevo già scritto il pezzo e lei mi aveva mandato un audio in cui mi spiegava che aveva deciso di chiamare questo momento “a flower bud”, cioè un fiore che non è mai fiorito. Per me è stata assurda, perché il brano già diceva “fiori che fioriscono da un’altra parte”. Quindi le ho chiesto il permesso di utilizzare la sua voce. Per “VENERDÌ” volevo inserire la voce di mia nonna perché stavo rielaborando il suo lutto. Ho usato molto parlato anche durante il tour di “NOTTE”, anche se non c’era nel disco. Ho sempre utilizzato la narrazione degli altri per raccontare cose che non stavo vivendo in quel momento. Per me è un modo per ricordarci che alla fine siamo tutti nello stesso mondo, viviamo tutti questa umanità, e abbiamo tutti gli stessi sentimenti per certe cose.

BLUEM. Ph Jasmine Farling. Courtesy of the artist

 Da artista introversa, come vivi il confronto con gli altri?
Lo vivo per forza di cose: sono cresciuta con i social. Il modo in cui molte persone scelgono di raccontarsi spesso non è così sincero, c’è questa idea di gonfiare la propria immagine: dobbiamo dire tutti che ci sono i soldout, dobbiamo far vedere la foto dove c’è un pubblico enorme, altrimenti meglio non pubblicarla. C’è la tendenza a gonfiarsi come tacchini sui social quando in realtà molti di noi musicisti soprattutto della sfera indipendente affrontiamo grandi difficoltà nel fare il nostro lavoro. Quando non ho niente da dire non dico niente, e cerco di non adeguarmi alle cose come vengono raccontate. Mi taglio fuori da quel tipo di narrazione, quindi chiaramente ho meno followers, e il mio progetto cresce più lentamente. Però una cosa che mi fa sempre piacere vedere è che le persone che arrivano da me sono già affezionate al progetto, anche se magari l’hanno scoperto il giorno prima. Si avvicinano a me sempre con molto calore. Per me è la cosa più preziosa. Ci tengo ad avere delle interazioni con chi mi viene ad ascoltare, nonostante sia una persona introversa. Ci tengo a parlare con le persone e dopo un concerto sono felice di fare due chiacchiere, e sapere qualcosa di loro. Provo sempre a mantenere questo rapporto umano.

BLUEM. Ph Jasmine Farling. Courtesy of the artist

Come trovi l’equilibrio tra il cercare di mantenere un’integrità personale e coltivare il tuo progetto musicale?
Di recente ho parlato con una musicista sarda molto più grande di me, incontrata sul set di un cortometraggio. Io sentivo questa frustrazione, questa pressione, mi chiedevo perché il mio progetto non crescesse più in fretta. Perché io ci sto mettendo tutto, mi chiedevo perché funzionasse solo se la gente entra in determinati meccanismi. Lei mi aveva fatto il paragone con un albero, mi aveva detto: «Se un albero cresce altissimo ma non ha radici forti, cade, cade presto. Tu invece devi lavorare sulle tue radici e poi pian piano l’albero crescerà, solido». Questa cosa mi aveva colpita molto, e mi aveva fatta tornare in me stessa. Anche se ho molta integrità è inevitabile perdersi, buttarsi giù a volte, perché comunque uno ci mette tutto.

Hai progetti per il futuro?
Sto iniziando a lavorare a qualcosa di nuovo. Ho sempre avuto una visione molto chiara di come volevo i miei brani. Con “nou” mi sono confrontata con più persone, diverse, soprattutto dell’underground italiano, perché penso che ci siano dei grandi talenti che sono tutt’ora sottovalutati soprattutto come produttori. Tutte persone che stanno facendo musica, e che però sono rimaste un po’ nel sottosuolo. Mentre in questo nuovo progetto sono tornata a lavorare tanto da sola a livello musicale, portandomi però dietro tutto ciò che ho imparato dall’esperienza precedente e dal confronto con artisti e artiste che mi hanno accompagnata negli ultimi anni.

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