America OnlyIl trionfalismo personalistico di Trump, e la fine degli Stati Uniti per come li conoscevamo

Un assolo di revanscismo e promesse sbandierate per annichilire gli oppositori. Nel discorso di insediamento, il nuovo presidente si è detto pronto ad assicurare il più eccitante dei liberi-tutti ai suoi cittadini. E il resto del mondo può solo guardare

AP/Lapresse

Stavolta, c’è da scommetterci, il fact checking sul discorso con cui Donald Trump ha inaugurato la sua seconda presidenza nel giorno di Martin Luther King Jr. del 2025 passerà in second’ordine, nonostante anche in questa occasione con ogni probabilità sia stato vergato, come nel 2017, da Stephen Miller, fidato consulente di vecchia data, ebreo californiano vicino a Steve Bannon, ultrà del rimpatrio forzato degli immigrati clandestini e vice capo dello staff entrante alla Casa Bianca.

Adesso infatti Trump gioca su un piano diverso ed è anche il promulgatore delle regole della partita: perciò è stata mezz’ora di puro trionfalismo personalistico, un assolo di revanscismo covato con gusto e ostinazione, un florilegio di promesse pronunciate per fomentare l’idolatria e annichilire gli oppositori ridotti all’angolo, muti e impotenti, bollati come portatori del pessimismo e distruttori del sogno americano (per non dire degli indizi di perplessa ammirazione che hanno risuonato perfino nelle parole dei commentatori nostrani).

Circondato dalla corte di plutocrati e oligarchi delle Big Tech, Trump ha definitivamente seppellito il realismo della politica americana e le metafore pacificanti, descrivendo la propria America, ovvero la nazione che intende risvegliare con una super dose di anabolizzanti. Nel farlo ha solleticato senza requie l’innato gusto americano per la vittoria, la mai dimenticata ambizione d’una condizione esistenziale fortunata ed eccezionale, dispiegando una visione che non contempla più il confronto e il dibattito, ma invoca lo sforzo collettivo verso la dominazione e la supremazia.

Con tempi e pose televisivamente efficaci, Trump si è definito l’uomo delle stelle, capace di conquistare l’impossibile, pronto ad assicurare il più eccitante dei liberi-tutti, a solo uso e consumo dei connazionali, che perciò non potranno non amarlo, davvero adesso torneranno ad avere licenza di comprare automobili massimamente inquinanti, di mettere da parte i sensi di colpa ambientalisti, di dire, scrivere e denunciare qualsiasi nefandezza passi loro per la testa, di dare per buoni solo due generi – maschile e femminile, nessuna bizzarria di mezzo – di vedersi piovere in testa gli introiti generati da dazi formidabili, di vaccinarsi ma soltanto col bourbon, di fare su e giù per il canale di Panama a proprio piacimento e di affittare un cottage su Marte a prezzi di realizzo.

Il capo adesso è l’uomo della libertà e non pretende ragionevolezza ed empatia, ma assenso, sostegno ed eccitazione. Le sue parole, i gesti e i volti di questa giornata surreale risuonano in una bolla destinata a passare alla storia, come quella in cui si consuma un’inversione di marcia psico-sociale che è un all-in senza compromessi.

Così, noi e il resto del mondo restiamo dietro i vetri della finestra, a veder passare questo corteo che appare alieno, per come non abbiamo avuto il tempo di capire come e quanto in fretta l’America che ci illudevamo di conoscere abbia completato il proprio cambio di pelle. Perché il senso del discorso programmatico di Trump è questo: dobbiamo accettare che adesso la geografia politico-economica del pianeta sia un’altra, rispetto a quella a cui eravamo abituati.

L’America agli americani e tutto il resto del mondo “Resti in Messico”. Più che America First, America Only, a cura garantita dell’uomo che una netta e trasversale maggioranza di americani ha di nuovo chiamato a guidarli e rappresentarli, definendo nel contemporaneo il vero spirito nazionale prevalente. Con un interrogativo: chi e cosa resterà, quando questo diluvio sarà passato?

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