Nuovo ordine globaleL’Ue deve ripensare la propria politica economica per affrontare le sfide del futuro

L’anno appena trascorso ha segnato il sorpasso dei Brics sui Ventisette dell’Unione nella distribuzione del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto. La Cina, da sola domina il panorama mondiale: Bruxelles deve ripensare la propria dimensione economico-finanziaria

Lapresse

Nel 2024 Brasile, India, Russia e Sudafrica hanno superato l’Unione europea per quanto riguarda la distribuzione del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto. I dati rilasciati dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) sullo stato dell’economia nel pianeta è sempre un evento simbolico, ma il sorpasso nei confronti dell’Unione da parte dei quattro membri originari dei Brics, oltre alla Cina, può avere dei significati concreti. In questo caso certificano una rinnovata difficoltà dell’Europa nel mantenere i ritmi di crescita del resto del mondo, ed è un segnale anche per la tenuta delle democrazie occidentali.

La Cina detiene, al momento, il diciannove per cento del mercato globale, mentre gli Stati Uniti sono scesi al quindici. Al terzo gradino del podio mondiale c’è l’India. La crescita della fetta russa, al quarto posto, si è quasi arrestata e secondo le previsioni del Fmi la discesa potrebbe iniziare a partire dal 2025, anche se ovviamente il destino del ruolo che giocherà Mosca nell’economia planetaria è legato soprattutto al conflitto in Ucraina. L’Italia, dopo una serie di anni promettenti dopo la pandemia, è ancora in discesa ed è l’undicesima economia mondiale con l’1,85 percento, di poco davanti alla Turchia, che l’anno prossimo potrebbe addirittura superarci.

Una delle questioni più dibattute nel corso degli ultimi anni, dal punto di vista geopolitico, è quella del multipolarismo e del rapporto che l’Italia e l’Europa dovrebbero mantenere con le potenze mondiali. In ambito economico, sono in questo momento diciotto i paesi a detenere almeno l’uno per cento del Pil mondiale, e guardando le dimensioni passate si tratta di una quantità addirittura inferiore al passato: trent’anni fa, le economie con una fetta superiore all’uno erano ventidue. A cambiare è stata la composizione di questo gruppo: nel 1994, erano sei i paesi dell’Europa occidentale a fare parte di questo gruppo privilegiato che accumulava il venti per cento delle ricchezze mondiali (quasi la stessa percentuale degli Stati Uniti). Trent’anni dopo, si sono persi per strada i Paesi Bassi (scavalcati addirittura dalla Polonia) e quella fetta è oggi ridotta all’11,5 per cento.

Questo elemento porta a considerare anche quelle che sono le variazioni storiche del Pil: pur non rappresentando una scienza esatta, un progetto di questa natura era stato elaborato dall’economista Angus Maddison. Maddison ha dedicato la sua carriera allo studio della storia dell’economia, quantificando il peso economico in termini di Pil in tutto il mondo nell’arco della storia. 

I dati più interessanti sono quelli che caratterizzano la nascita degli stati-nazione come li intendiamo noi oggi, e attraverso quelli è possibile comprendere come si sia mossa l’economia mondiale. Leggendo i dati raccolti dal professor Maddison, e che oggi sono aggiornati costantemente e con maggior precisione dal Fmi, è possibile anche spiegare la ragione della crisi delle democrazie di fronte alla Cina e alle economie emergenti. Secondo gli studi di Maddison, il Regno Unito e le sue colonie hanno rappresentato la prima economia mondiale già nel 1820 e ancora nel 1870, mentre con lo scoccare del nuovo secolo era avvenuto il sorpasso a beneficio degli Stati Uniti. Il passaggio di testimone più recente risale al 2016, quando in vetta è salita la Cina.

È facile spiegare con il senno di poi la crisi delle monarchie assolutiste nel periodo della restaurazione e il peso schiacciante degli Stati Uniti sia a ridosso delle due guerre mondiali che durante la Guerra Fredda, il timore è che la situazione attuale possa rappresentare uno dei tanti campanelli d’allarme nella crisi del consenso attorno alle democrazie occidentali. Queste sono diventate maggioranza nell’economia mondiale solo con l’avanzare del ventesimo secolo nonostante le minacce dell’Unione Sovietica e del nazifascismo, ma adesso vedono il proprio vantaggio economico e tecnologico sfiorire.

Nel 1992 venne pubblicato “La fine della storia” di Francis Fukuyama, che preconizzava il trionfo del capitalismo dopo la fine della Guerra Fredda. Oggi, fra i diciotto paesi con almeno l’uno percento del Pil mondiale, quelli con almeno 7,5 nella valutazione dell’indice per la democrazia dell’Economist ne detengono esattamente il 32,13 per cento. Trentadue anni fa, con la caduta del blocco sovietico, gli stessi paesi erano al 50,22 per cento e, secondo l’Fmi, nel 2029 scenderanno sotto il trenta..

L’Unione europea gioca un ruolo fondamentale soprattutto per garantire voce in capitolo ai suoi membri meno rappresentati, ma ormai anche paesi come Italia, Germania e Francia, aderenti al G7, mostrano il proprio bisogno di una voce univoca in un contesto mondiale così diverso rispetto al passato. In un’ipotetica assemblea del mercato mondiale in cui ogni paese è rappresentato in base alla sua percentuale, i singoli stati membri oggi metterebbero assieme dieci seggi su cento, mentre l’Unione europea porterebbe in dote diciassette rappresentanti al tavolo mondiale.

Quest’ultimo aspetto presupporrebbe l’avvio di una politica industriale dell’Unione, come auspicato nel suo rapporto da Mario Draghi, ma questa prospettiva al momento non sembra ancora essere in grado di realizzarsi. Non è tutto perduto, tuttavia: ci sono esempi virtuosi come quello della Spagna, capace di rialzarsi dopo la crisi economica dal 2010, o i paesi di nuovo accesso all’Ue. I tredici stati che hanno fatto ingresso dal 2004 a oggi, in vent’anni hanno perso solo lo 0,08 per cento del loro peso globale, trascinati dalla Polonia. Anche il Pil pro-capite vede ancora i paesi dell’Unione ai vertici, con nove paesi fra i primi venti al mondo, una costante durante gli ultimi trent’anni. Anche il coefficiente di diseguaglianza economica dice che nel 2022, anno di ultima rilevazione, rivela che i paesi europei sono dodici fra i venti più virtuosi, una quantità in aumento rispetto a trent’anni fa. 

Non c’è da sorridere, tuttavia: la promessa di Donald Trump di introdurre dazi, l’incertezza determinata dalla situazione internazionale e la necessità, per ora inesaudita, di accelerare il passo a Bruxelles, non permettono all’Europa di poter vivere sulle certezze del passato, ammesso che fossero tali.

X