Scandalous Book“F*ck you” è il messaggio di Harriet Richardson contro abusi e soprusi sessuali, che diventa opera d’arte

Harriet Richardson, l’artista londinese che ha scansionato le parti più intime del suo corpo come atto di ribellione e denuncia contro «un uomo di sessant’anni sessista e omofobo che mi bullizzava». Quando dare scandalo diventa una forma di protesta virale.

Foto d i Harriet Richardson

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Sono passati quasi duecentocinquant’anni da quando James Cook, deciso a toccare il punto più a sud della terra, fu fermato dal ghiaccio marino e costretto a virare a nord, approdando a Tonga. Qui scoprì, e decise di importare, una parola: tabù, che significava sia sacro che proibito. La parola tabù si è diffusa con eccezionale rapidità, tanto grande era forse il bisogno di dare un nome a quell’insieme di pratiche, emozioni e azioni che si fanno ma non si dicono. 

Ma oggi, dopo tutto questo tempo, come stiamo messi a tabù sul sesso? Negli ultimi decenni ne abbiamo abbattuti parecchi: la masturbazione femminile (fino a un po’ di tempo fa ammettere di masturbarsi era uno statement coraggioso, oggi ci consigliamo i toys agli aperitivi), il sesso in terza età, quello con il ciclo, i sex party che sono ormai degli eventi cool, le relazioni aperte, i kink più insoliti: sembra che non ci sia nulla di cui non si possa parlare, eppure alcune emozioni di vergogna o senso di colpa legate al sesso rimangono dentro di noi e dobbiamo ancora sbrogliarcele per conto nostro.

Ne chiacchiero su Zoom con Harriet Richardson, un’artista e designer conterranea di Cook, le cui opere hanno spesso al centro il suo corpo e i suoi desideri, e sono cristalline e spiazzanti come certe domande dei bambini. Scandalous è il suo ultimo libro, un grande “F*ck you” come lo ha definito lei (che è poi come definisce gran parte delle sue opere) e si tratta una raccolta di nudi realizzati con uno scanner dell’ufficio.

Foto di Harriet Richardson

Racconto a Harriet la storiella di James Cook perché fa il paio con una mia convinzione, cioè che i tabù siano le colonne d’Ercole messe a proteggere la più nefasta bugia che ci hanno raccontato sul sesso: la sua sacralità; si tratta di una bugia alienante perché rende il sesso un’attività umana che non riguarda solo noi, il nostro piacere, la nostra voglia (o non voglia) di riprodurci, ma qualcosa che ci prescinde e che non possiamo maneggiare con disinvoltura, pena lo stigma e la colpa.

Le chiedo così da dove nasce, nel suo caso, la voglia di “dare scandalo”. «Sono cresciuta in una famiglia molto credente, non erano ammessi ragazzi e non esisteva nessuna idea di privacy, in casa vigeva una sorta di “politica della porta aperta”, un’abitudine parecchio violenta se ci pensi. Pure le questioni mediche che avevano a che fare con il sesso erano bandite, non ne parlavamo. Così tutta la mia opera è un’opera di ribellione. Anche ora che vivo da sola e molto distante dai miei, quindi libera da quei condizionamenti, ammetto di subire ancora una certa pressione, soprattutto online. Non è un discorso che riguarda solo la censura sui social, che pure esiste, ma riguarda la nostra stessa presenza lì, siamo esposti a un’enorme mole di giudizio. Nella società ci sono spinte contrastanti, ci sono persone che spingono affinché di tabù si parli (e si superino) e molte altre che stanno meglio se certe cose vengono tenute nascoste e nulla cambi. Questa è tensione. Esiste, la sento e la uso nelle mie opere».

La storia di Scandalous ne è un esempio: Harriet aveva da poco accettato un lavoro molto prestigioso (e altrettanto ben pagato) come direttrice creativa in uno studio di design a Londra, ma si era ritrovata a lavorare con un uomo di sessant’anni sessista e omofobo che la bullizzava e ostracizzava in ogni modo. Il giorno in cui Harriet non ne ha potuto più, si è dimessa e se n’è andata rubando uno scanner. «Ero incazzata per essermi messa in quella situazione, quella sera non volevo vedere nessuno, così mi sono chiusa in stanza con una bottiglia di vino bianco e lo scanner rubato. Ho iniziato a spogliarmi e a scansionare tutte le parti del mio corpo. Qualche giorno dopo ho riportato lo scanner in ufficio, ma senza lavarlo». E nemmeno Zoom può mitigare la potenza del suo sorriso compiaciuto.

Foto di Harriet Richardson

Qual è lo scandalo che dà il titolo al libro? le chiedo. «In realtà il titolo del libro nasce da un gioco di parole abbastanza stupido: le foto sono tutte scansioni, degli scan, e sono tutte di nudi per cui lì per lì ho nominato così la cartella: “scan-dalous”». Quindi non volevi dare scandalo? «No, no. Io voglio sempre dare scandalo! E spero di averne creato un po’ da qualche parte, anzi, sono abbastanza sicura che il mio “F*ck you” sia arrivato dove doveva arrivare. Per anni non mi sono mai arrabbiata, nessuno avrebbe detto di me che ero una persona aggressiva, anzi, ma a un certo punto, anche grazie alla terapia, ho capito il potere della rabbia. Oggi il mio è un lavoro di ribellione che nasce da lì, dalla voglia di essere ascoltata, di far capire qualcosa. Scandalous è l’opera più arrabbiata che abbia mai fatto».

E in effetti, a pensarci bene, forse la rabbia fa scandalo più del sesso, è un tabù ancora più grande. Tendiamo a vergognarci della nostra quando si manifesta e stigmatizziamo, cringiando, quella degli altri. Realizzo mentre parlo con Harriet cos’era quel filo di disagio che ho provato studiando il suo lavoro: un mio personale fastidio verso la rabbia esposta e lasciata libera di agire, perché io non sono capace di farlo e mi giudico ancora troppo. Così, in cerca di speranza e ispirazione, le chiedo di più su questo. 

«È davvero difficile mostrare la rabbia, specialmente se sei una donna, nella mia famiglia non era proprio consentito. Quello che posso dirti è che penso ci siano due tipi di rabbia, una animalesca e incontrollata che ti fa venire voglia di rompere tutto, e un’altra invece calcolata, lucida. Quando riconosco quest’ultima, è lì che inizio a tramare qualcosa, tipo rubare uno scanner. Per me sfogare la rabbia passa da un certo indugiarci, starci dentro e vivermela, riconoscere che c’è una ragione se quella rabbia è lì. Sono stata depressa in passato e ho odiato profondamente quella sensazione di vuoto. In quel periodo non provavo nulla di potente come la rabbia, quindi ora posso dire che in un certo senso me la godo proprio. Trattiamo la rabbia come un’emozione completamente negativa, ma non credo che lo sia».

Mi ricordo della mia analista che provava a farmelo capire, spiegandomi la scena di Inside Out in cui il personaggio denominato appunto “Rabbia” rompe il vetro della cabina di comando e permette a “Goia” e “Tristezza” di rientrare. La rabbia sfonda, apre, libera. Certo è che ogni volta che proviamo a rompere un tabù, a prescindere da quale emozione lasciamo che ci guidi, corriamo un rischio, sia sociale che emotivo. È una scommessa, come andare a vedere un bluff a poker: scommetti sul fatto che quello stigma non abbia nessuna ragion d’essere e che così facendo lo mostrerai a tutti, ma fino alla fine non puoi prevedere le conseguenze del tuo gesto. 

Foto di Harriet Richardson

«Il rischio c’è, lo sento pure io, ma so pure che se non avessi paura, se non percepissi del rischio, non sentirei nessun interesse verso quel progetto. Quando ho pensato di realizzare un libro con le scansioni di quella notte, il mio primo pensiero è stato: “oh mio dio le vedranno mia madre, i miei amici, le persone che conosco per lavoro. Che ne penseranno?” I social media fanno sì che tutti curiamo in modo maniacale il modo in cui vogliamo essere visti. Ecco, alla fine io ho realizzato che voglio essere percepita come una persona che rompe i tabù, che si espone, mi piace rivelarmi in modo provocatorio. Così, anche se c’è la parte più istintiva di me che si agita pensando alle conseguenze, poi vince la parte razionale che invece agisce sapendo che mi sto prendendo una licenza artistica. Questo è il mio spazio di libertà, ma crearlo non è un’operazione fredda, ha a che fare con tutte le emozioni collegate al giudizio, al rivelarsi».

Mi rivedo nelle parole di Harriet.  Non è mai un’operazione fredda. Poi per fortuna a un certo punto subentra anche una sorta di serenità che nasce dall’esperienza.  Quando vedi che dopo uno, due, tre di questi salti nel buio, atterri tutta intera e che le uniche vittime sono dei condizionamenti esterni, allora prendi fiducia che forse è la strada giusta. “Sì” aggiunge Herriet “alla fine se ti assumi il rischio e sai cosa stai facendo, forse che il peggio che può succederti è un ban sui social.”

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