Finora, le operazioni militari di Israele nella Striscia di Gaza, lanciate dopo l’attacco a sorpresa di Hamas il 7 ottobre 2023, hanno causato la morte di centoquarantaquattro giornalisti, secondo i dati raccolti dal Committee to protect journalists. Nello stesso periodo, Israele ha anche incarcerato quarantaquattro giornalisti, tutti palestinesi. Solo la Cina ne ha incarcerati di più (cinquanta). Israele ha meno di dieci milioni di abitanti, la Cina circa un miliardo e quattrocento milioni. Le autorità israeliane hanno, inoltre, bloccato le attività del media qatariota Al-Jazeera per quarantacinque giorni e confiscato attrezzature giornalistiche all’agenzia AP, sulla base di una recente legge pensata per limitare l’attività dei media non israeliani.
A fine novembre, infine, il governo israeliano ha interrotto gli accordi pubblicitari con il giornale Haaretz e disdetto gli abbonamenti previsti per i dipendenti pubblici, una forma di ritorsione per le posizioni critiche tenute dal giornale progressista contro la gestione della guerra nella Striscia di Gaza da parte dell’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu. Queste azioni hanno allarmato gli osservatori internazionali, come Reporters sans frontières e altre Ong che lottano per difendere la libertà della stampa. Molta meno attenzione, tuttavia, è stata dedicata a raccontare come funziona il sistema mediatico israeliano.
Amit Schejter è uno dei più importanti studiosi del tema. In un recente articolo accademico, ha ricostruito la genesi del sistema mediatico israeliano e la sua recente degenerazione, con la crescente egemonia di un polo mediatico vicino al primo ministro Netanyahu. Subito dopo l’indipendenza (1948), il panorama mediatico israeliano veniva definito come tipico dei paesi in via di sviluppo: molti quotidiani di partito; una sola radio, a gestione statale; nessun canale televisivo, anche perché il fondatore di Israele, David Ben-Gurion, riteneva che la televisione potesse avere un ‘impatto culturale negativo.’
All’epoca dell’indipendenza, esistevano in Israele tredici quotidiani, pubblicati in ebraico, inglese e tedesco. Un quotidiano in arabo era stato chiuso durante la guerra arabo-israeliana del 1948, ma riaperto poco dopo da un sindacato. Esistevano anche delle pubblicazioni in altre lingue, come l’ungherese Új Kelet, rivolte perlopiù agli immigrati ebrei europei sopravvissuti alla Shoah.
Nei primi anni post-indipendenza, l’offerta giornalistica era quindi complessivamente molto varia, diversificata sia come lingue che come opinioni. Caratteristica tipica del sistema mediatico di Israele, non esisteva una stampa locale: le pubblicazioni si rivolgevano alle diverse comunità religiose o nazionali, non agli abitanti di un determinato territorio. Dei tredici quotidiani di allora, oggi ne esistono ancora solo tre: Haaretz, fondato già nel 1921; Yediot Aharonot; e Yediot Maariv, oggi chiamato solo Maariv (“Sera”).
La radio, che era già stata introdotta dai britannici in epoca coloniale, fu gestita direttamente dallo stato fino alla fondazione dell’Israel Broadcasting Authority (Iba) nel 1965, al termine dell’esperienza politica di Ben-Gurion. L’anno seguente venne lanciato il primo canale televisivo, che dopo una fase sperimentale iniziale passò a sua volta in gestione all’Iba nel 1969. Organismo molto vulnerabile alle influenze della politica, l’Iba mantenne il monopolio della trasmissione televisiva fino a metà degli anni Novanta. Offriva un solo canale televisivo, che trasmetteva saltuariamente anche programmi in arabo.
Negli anni Ottanta iniziarono a circolare i primi quotidiani gratuiti, che furono anche le prime forma di stampa locale in Israele, nonostante fossero legati solitamente ai principali quotidiani nazionali. La televisione via cavo arrivò nel 1989, favorendo a sua volta lo sviluppo della stampa locale.
Un cambio notevole dei consumi giornalistici in Israele avvenne con la fine della Guerra fredda, nota Schejter. Dopo il collasso dell’Urss, più di un milione di ebrei sovietici si riversarono nel paese, alterando completamente il panorama mediatico. I giornali delle minoranze non russofone diventarono prima settimanali, poi mensili e infine, in larga parte, chiusero. La stampa in russo divenne egemonica tra le comunità di immigrazione più recente. Fino a metà degli anni 2000, seppur dominata dal giornale Yediot Aharonot, la stampa cartacea aveva ancora un buon grado di pluralismo.
Le cose cambiarono nel 2007, quando entrò in scena il miliardario ebreo americano Sheldon Adelson, convinto sostenitore di Netanyahu, all’epoca leader dell’opposizione. Dopo esser stato sconfitto alle elezioni del 1999, Netanyahu aveva accusato i ‘media ostili’ e dichiarato: «Ho bisogno di avere i miei media». Desiderio esaudito. Adelson lanciò un tabloid, Israel Hayom (Israele oggi), che acquisì subito una distribuzione capillare, diventando in tre anni il giornale più diffuso del paese.
Una ricerca del 2023 citata da Schejter notava che il ventisei per cento circa degli israeliani legge Israel Hayom, il ventun per cento Yediot Aharonot. Haaretz, il giornale più noto al pubblico italiano (Internazionale ne traduce spesso gli articoli) è letto da meno del cinque per cento della popolazione. La popolarità di Israel Hayom fu uno dei fattori che favorirono il ritorno di Netanyahu al potere nel 2009, ritorno che inaugurò la metamorfosi del sistema mediatico israeliano.
Nel 2015 il servizio pubblico, la Iba, venne sostituita dalla Kan (“qui” in ebraico), un organismo controllato più direttamente dal governo. Il canone venne abolito e rimpiazzato da un finanziamento pubblico che la Knesset, il parlamento israeliano, deve rinnovare ogni tre anni.
Alcune modifiche normative facilitarono inoltre la nascita di Canale 14, una sorta di megafono della propaganda pro-Netanyahu e dell’estrema destra israeliana. Se nel 2022 l’audience di Canale 14 risultava abbastanza limitata, attorno al due per cento, stime più recenti indicano che sia oggi il secondo canale più visto in Israele. La popolarità del tabloid Israel Hayom, il successo di Canale 14 e il controllo della Kan, il servizio pubblico israeliano, sono tre dei pilastri fondamentali dell’egemonia mediatica di cui gode Netanyahu.
La centralità del controllo dei media nella sua strategia di mantenimento del potere traspare anche nelle vicende giudiziarie in cui è coinvolto. In due dei tre casi in cui è imputato di frode e corruzione – il Caso 2000 e il Caso 4000 – è accusato di aver provato a convincere gli editori di due giornali (Yediot Aharonot e Yalla) ad adottare una linea più filogovernativa in cambio di alcuni favori. Rinnovando la retorica che propone fin dalla sconfitta elettorale del 1999, alla sua prima testimonianza in tribunale lo scorso 10 dicembre, il primo ministro israeliano ha attaccato Haaretz e la televisione pubblica Kan, sostenendo che la loro copertura sia pregiudizialmente avversa a lui e al suo governo.
Affermazioni che David E. Rosenberg, editorialista di Haaretz, ha commentato così su Foreign Policy: «Più che con tendenze autoritarie, il disprezzo di Netanyahu per i media indipendenti si spiega con la sua alta suscettibilità e l’idea che ha di se stesso e del suo posto nella storia come leader di Israele. Sembra pensare che un leader della sua caratura dovrebbe essere incensato dai giornalisti, non criticato. Una visione esacerbata dalla sua visione del mondo: ci sono amici e nemici, nessuna voce neutrale».