Prima del diluvio Springsteen, gli ultimi adulti, e la più terribile delle mie estati

Nel 1985, in una casa al mare con la tv che prendeva male ed era praticamente impossibile vedere il “Live Aid”, non sapevo che noi saremmo stati gli ultimi figli incompresi, che è l’unica condizione che ti renda figlio per davvero

LaPresse

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. O in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia dal 28 dicembre.

Ma la differenza è tantissima per quel che riguarda le madeleine. È una cosa che non esisteva prima di noi: per i nostri genitori e i nostri nonni avere avuto dodici anni in un decennio o in un altro cambiava pochissimo; cambiava l’età che avevi quando c’era la guerra e quando non c’era, ma non i libri che leggevi, i romanzi quelli erano, il varietà ancora non l’avevano inventato, il cinematografo era un lusso differito nel tempo: i dieci anni che aspettarono i nostri avi per vedere “Via col vento”in Italia, dopo l’uscita americana, a raccontarli oggi sembrano una vessazione da chiamare Amnesty.
Poi arrivammo noialtri cresciuti non solo nel pasciuto benessere ma nei decenni del pop, ognuno coi suoi diversi prodotti di formazione. Adesso io e uno che ha dieci anni più di me siamo coetanei, ma quello era alle medie quando alla radio c’erano i Led Zeppelin e io quando c’erano i Dire Straits: che si devono dire quei rispettivi aborigeni che sono i dodicenni che siamo stati? E quindi eccoci qui, a quarant’anni dall’estate dell’85, a poterne parlare solo con chi era poco più grande o poco più piccolo, nelle nostre stesse drammatiche condizioni.
L’estate più difficile della mia vita non è stata quella del 1990, in cui mi presi una cotta per un tizio abituato a trafficare in fotomodelle e finì in umiliazioni impensabili e materiale narrativo bastante per i successivi trentacinque anni. Non è stata quella del 2015, in cui tossivo e vomitavo, vomitavo e tossivo, e tutti sbagliavano la diagnosi di causa ed effetto e mi curavano con ogni mezzo una bronchite che non avevo e solo in autunno capii che combattere il caldo stando stesa a bere birra non aveva reso felice il mio esofago, e nel 2025 sono dieci anni che ho il reflusso e ormai siamo una vecchia coppia e se inizio a tossire so che di lì a poco vomito: come festeggiamo? L’estate più difficile della mia vita è quella che quest’anno fa quarant’anni.
Il solstizio era stato Springsteen a San Siro, il suo primo concerto in Italia, la prima volta in cui poteva vederlo dal vivo anche chi era troppo piccola o non abbastanza fanatica per andare a vedere i concerti all’estero. Tuttavia, questa piccola felicità era accompagnata da grandi patemi. E se i grandi che mi portavano al concerto non mi avessero lasciata andare sotto al palco? Sottopalco dove sicuramente, certamente, ovviamente Bruce mi avrebbe scelta per ballare con lui come Courteney Cox nel video di Dancing in the Dark che avevo passato l’estate precedente a guardare (naturalmente ignara che quel testo lì parlasse dei turni di notte della classe operaia: come sarebbe, non parlava di lui che la fa ballare?).
E poi c’era la bici da cui avevo tolto le rotelle in primavera (dopo sette anni che la possedevo, sette anni di rotelle come all’asilo, ma ora non stiamo a rimuginare sul mio essere stata sempre atleta fin da piccola), e senza rotelle ero riuscita a cappottarmi e rompermi un piede nel cortile di casa (atleta, dicevamo), mioddio ora come avrei fatto ad andare al concerto, per fortuna mi avrebbero tolto il gesso due giorni prima del gran giorno ma che patema.
Non sapevo che il gran dramma sarebbe stato a luglio, tre settimane dopo il concerto di Springsteen. Sarebbe stato quell’altro concerto, quello che in città avrei potuto vedere anche col gesso, comodamente alla tele, ma tre settimane dopo era metà luglio, e chi negli anni Ottanta c’era sa che nessuno restava in città a metà luglio, a volte i papà a lavorare, certo non i figli a scuole finite, o le mamme che avevano diritto costituzionale a tre mesi d’abbronzatura. Potevi restarci se eri più grande e decidevi cosa fare di te, ma io di anni ne avevo dodici e mi sbolognavano al mare. E al mare c’era un problema che posso raccontare ai giovani d’oggi come le zie e le nonne raccontano che poi a metà degli anni Quaranta arrivano gli Alleati e portano la cioccolata, e altri aneddoti postbellici.
Il problema degli anni Ottanta era che nelle case al mare i televisori prendevano male. Roba d’antenne e altre cose che oggi paiono preistoria, mica il tessuto delle nostre vite d’un attimo fa. Al mare, era praticamente impossibile vedere il Live Aid. Un pomeriggio di dramma, perdipiù incompreso dagli adulti.
Gli ultimi adulti esistiti, quelli cui non fotteva niente se tu non potevi vedere Simon LeBon che stonava, se non potevi usare quella diretta televisiva per litigare con le amichette (via cartolina illustrata: nelle case al mare mica c’era il telefono) sul fatto che quelli con le canzoni belle erano gli Spandau Ballet. Gli ultimi genitori li abbiamo avuti noi, che abbiamo avuto genitori che non sapevano chi fosse David Bowie, e non capivano perché ci fosse bisogno d’agitarsi se la tele non ci faceva vedere Heroes: hai la musicassetta, non puoi sentirlo lì?
Gli ultimi figli incompresi – l’unica condizione che ti renda figlio davvero – siamo stati noi, che cominciammo quell’85 col video di We are the World, del quale mio padre diceva che Springsteen cantava come uno che è sul cesso e ha i crampi. Gli ultimi adulti sono stati loro, figli di gente che aveva figliato sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, loro che avevano avuto trent’anni negli anni del terrorismo, e a quaranta non avevano intenzione di scapicollarsi a capire il presente.
Non si resero conto che in quei mesi stava iniziando un’inflazione di buone cause e beneficenza, che Jack Nicholson che presentava la parte americana del Live Aid era un tipping point, e da lì iniziava il declino: mai più un evento di beneficenza sarebbe stato non derivativo, mai più una star assoluta sarebbe comparsa in mondovisione a dire qualcosa di simile a «dirige l’orchestra il maestro Vince Tempera», mai più una Madonna sarebbe stata vestita così a casaccio, senza stylist, senza sponsorizzazioni, senza piani editoriali nella scelta degli accessori.
L’estate più terribile della mia vita fu quella in cui non potevo immaginare che per il ventennale sarebbero arrivati i dvd, e il Live Aid l’avrei comodamente visto in una casa da trentaequalcosenne, convincendomi con metodo Strasberg d’essere nostalgica di immagini che in realtà stavo vedendo per la prima volta, di cui avevo solo letto sui giornali, di falsi ricordi che avevo costruito con struggimento.
Questo 2025 sarà, come ognuno degli ultimi anni, pieno di buone cause, raccolte fondi, polemiche su donazioni, io che verso a te e tu che versi a me, cene di gala con scuse nobili, bambini bombardati che sostituiscono i bambini che morivano di fame e in nome dei quali dovevi finire le verdure quarant’anni fa (degli adulti che potrebbero crepare fregava meno, allora come oggi: vuoi mettere quant’è fotogenico il minorenne morente).
Ma saranno tutti copie di mille riassunti, e i pasciuti bambini occidentali avranno, nelle case al mare, affidabili pacchetti dati sul cellulare: non rischiano di perdersi nessuna diretta TikTok che possa per i prossimi quattro minuti sembrare epocale, e tra quarant’anni non potranno raccontare il dramma di quando non avevano la possibilità d’essere spettatori dello spettacolo del momento. Chissà come faranno, a inventarsi nostalgie.

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. O in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia dal 28 dicembre.

X