L’atteggiamento antisemita di Papa Francesco va oltre la contravvenzione al criterio conciliare di ripudio dell’incolpazione collettiva del popolo ebraico. Quelle poche righe vaticane – che, pur ambiguamente, facevano salvi gli ebrei in quanto tali dall’accusa di deicidio, senza tuttavia rinunciare alla denuncia dell’ebraicità delle “autorità” e dei “seguaci” che si sarebbero adoperati per la morte di Cristo – avevano almeno il pregio di urtare un sentimento diffuso e ormai genetizzato in diciannove secoli di pregiudizio. Perché questa era la situazione: mentre si compilavano i documenti del Vaticano II, nelle scuole della Repubblica democratica fondata sull’antifascismo i bambini ebrei ascoltavano i coretti dei compagni, incensurati dalla maestra, che appunto li dicevano assassini di Gesù.
Il Papa sudamericano che reclama l’accertamento del genocidio e, dal pulpito della democrazia delle impiccagioni, indugia sulle manchevolezze umanitarie dello Stato Ebraico, non solo non pone la Chiesa che capeggia in urto con la nuova incolpazione collettiva del popolo ebraico camuffata da istanza giurisdizional-umanitaria, ma la mette a testimonianza suprema e apostolare di quel rinnovato andazzo. Non solo il Papa non si cura, per denunciarne la malattia, delle budella in cui macerava il risentimento antisemita, ma vi rimesta, a liberarne l’escremento e a santificarne il sollievo liberatorio durante l’angelus che condanna la «prepotenza» dell’occupante in Terra Santa, la cosa che giustifica la caccia all’ebreo nelle città europee che furono della Shoah e gli incendi delle sinagoghe troppo irrilevanti per l’attenzione di Francesco.
L’argomento assolutorio – di cui purtroppo abbiamo dovuto osservare il ricorso – secondo cui il Papa non parla dalla cattedra quando si lascia andare a quegli spropositi non rende ragione del delitto anche più grande di cui si rende responsabile questo gesuita nella sua sfrenatezza. Ed è l’abdicazione alla funzione di timorata guida nel contenimento cristiano della comunità universale, sostituita dal cedimento alle istanze più violente e intolleranti del gregge, cannibalizzate nel discorso in paramento candido che finisce negli slogan delle manifestazioni dal fiume al mare. Non è neppure il Papa del deicidio (sarebbe meglio); è il papa di un antisemitismo post-conciliare da instant-book e da mattinale dell’Aia.