La costruzione dell’alternativa Non è più una questione di quando crollerà il regime iraniano, ma come

Il neuroscenziato iraniano-norvegese Mahmood Amiry-Moghaddam ha fondato una ong che monitora e denuncia le continue condanne alla pena di morte in Iran. A Linkiesta spiega perché la repubblica islamica è entrata nella sua fase finale: «Nessuna dittatura può reggersi solo sulla repressione. Ora è importante prepararsi a costruire un’alternativa»

LaPresse

«Non dobbiamo più solo chiederci quando, ma anche come accadrà». Il direttore dell’ong norvegese Iran Human Rights, Mahmood Amiry-Moghaddam, non ha dubbi: «La Repubblica islamica dell’Iran è entrata nella sua ultima fase di sopravvivenza. Per questa ragione si stanno diffondendo tanti corsi e seminari dedicati alla transitional justice che servono a capire come costruire un sistema politico democratico durante la fase di transizione: ora è molto importante prepararsi a costruire un’alternativa», spiega a Linkiesta. «Le proteste sono sempre più diffuse e il regime è sempre più debole, sia internamente che esternamente. Corrotto, repressivo e incompetente nella gestione dei problemi quotidiani innescati dalla crisi economica, fa fatica ad affrontare le proteste che sono ogni volta più grandi di quelle precedenti. Nessuna dittatura può reggersi solo sulla repressione». 

Mahmood Amiry-Moghaddam insegna all’università di Medicina di Oslo, dirige il laboratorio di neuroscienza molecolare ed è stato premiato come una delle dieci menti più brillanti in campo scientifico in Norvegia dove da molti anni porta avanti campagne abolizioniste. La mobilitazione internazionale e interna all’Iran, soprattutto nel Kurdistan iraniano dove c’è stata una protesta alcuni giorni fa, è riuscita a far sospendere la condanna a morte dell’attivista curda Pakhshan Azizi. Lo ha comunicato il suo avvocato Maziar Tataei il 22 gennaio, spiegando che il processo verrà riesaminato.

«La Repubblica islamica usa processi sommari ed esecuzioni come strumento di terrore e controllo del dissenso ma anche in questo caso i costi politici della sua condanna sarebbero stati troppo alti. Nel 2024 ci sono state novecento condanne a morte. Nelle prime tre settimane del 2025 sono state sessantasette, più di tre al giorno. Il movimento contro la pena di morte però è cresciuto molto e si tratta di un altro segnale importante da tenere in considerazione».

Oggi 28 gennaio si celebrerà il primo anniversario della campagna No Death Penalty Tuesdays nata nelle prigioni iraniane che ha segnato una svolta nel movimento per l’abrogazione della pena di morte in Iran. Dopo aver assistito per mesi a esecuzioni di gruppo settimanali a Karaj e all’esecuzione di diversi prigionieri politici nel gennaio 2024, un gruppo di prigionieri politici nella prigione di Ghezelhesar a Karaj ha organizzato una protesta che è stata violentemente repressa. Il gruppo di prigionieri politici ha iniziato uno sciopero della fame settimanale il 30 gennaio del 2024, che è diventato noto come Black Tuesdays” e “No Death Penalty Tuesdays.” 

Hanno scelto il martedì perché è il giorno in cui i condannati a morte vengono solitamente trasferiti in isolamento in attesa del boia. Hanno aderito diversi gruppi di prigionieri di trentaquattro prigioni e sessantotto organizzazioni per i diritti umani iraniani internazionali provenienti da quattro continenti hanno firmato una dichiarazione congiunta in sostegno del movimento abolizionista No Death Penalty Tuesdays

«L’8 ottobre 2024, un’ampia rete di attivisti per i diritti umani iraniani e internazionali ha partecipato a un live streaming di ventiquattro ore organizzato da Iran Human Rights e dalla Global Campaign Against Executions in Iran. Un evento che voleva esprimere solidarietà e sottolineare lo sforzo collettivo necessario per abolire la disumana pena di morte in Iran», spiega ancora Mahmood Amiry-Moghaddam. 

«Tradizionalmente ci siamo focalizzati solo sui dissidenti politici, mentre ora ci occupiamo di tutti i condannati a morte: una svolta significativa nella battaglia della difesa dei diritti umani da parte di tutta la società civile perché il novanta per cento dei detenuti vengono condannati a morte per reati comuni», osserva il direttore di Iran Human Rights. «La crescita di opposizione alla killing machine della Repubblica islamica è un altro segnale di ribellione da non sottovalutare».

Tornando alla prospettiva di libertà in Iran, gli abbiamo chiesto se esiste una forza politica alternativa perché un anno fa la sua organizzazione ha pubblicato un report sulla meglio gioventù iraniana attiva in tutti i settori della società con nomi e storie dei principali difensori dei diritti umani in tutto il Paese. «Questo è un nodo importante. La ribellione del movimento Donna, Vita, Libertà non è riuscita a far crollare il sistema ma ha innescato dei cambiamenti radicali. Le donne che circolano senza velo sono un numero sempre più rappresentativo e infatti le legge sul velo e la castità è stata fermata. Oggi non esiste un’opposizione pronta a sostituire il potere dei mullah, perciò è importante creare una piattaforma politica con comuni obiettivi per un ipotetico periodo transitorio: rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione, elezioni libere, abrogazione della pena di morte, rispetto delle minoranze etniche e religiose dato che il Paese è un mosaico culturale, parità di genere. E soprattutto la separazione fra stato e religione». 

Lo sciopero al Gran Bazar di Teheran il 29 dicembre in risposta al peggioramento dello stato dell’economia iraniana, l’aumento dei prezzi e dei tassi di cambio è un valido esempio del sentimento crescente contro il regime? «I lavoratori del commercio sono sempre stati conservatori. Perciò se si ribellano anche loro, possiamo capire le profonde debolezze del regime piegato dalla crisi economica». 

L’ultimo report di Iran Human Rights pubblicato il 7 gennaio, Death Penalty in Iran: A Gendered Perspective (Donne e pena di morte in Iran: una  prospettiva di genere), esamina invece le dimensioni e le disuguaglianze di genere riguardo alle esecuzioni dal 2010 «Nel 2024 la Repubblica islamica ha giustiziato trentuno donne nelle prigioni iraniane: il numero più alto in quindici anni. Complessivamente sono state duecentoquarantuno di cui centoquattordici accusate di omicidio, quattro per guerra contro Allah e corruzione sulla terra. «Circa il settanta per cento di queste donne sono state accusate di aver ucciso i propri mariti. Giustiziate perché accusate di omicidio, sono state vittime di violenza domestica, matrimoni forzati, abusi sessuali. Donne vulnerabili, isolate, senza supporto legale o familiare. Perciò ribadisco: la nostra attenzione non deve limitarsi ai dissidenti politici».

Tornando alla sopravvivenza della teocrazia dei mullah, Mahmood Amiry-Moghaddam è più ottimista rispetto al passato. «Il regime sopravvive per l’inerzia della comunità internazionale e per una mancanza di una compatta alternativa politica. Eppure non è mai stato così debole. Basta guardare cosa è accaduto con la legge su velo, fermata perché il sistema non era in grado di affrontare i costi politici di una grande protesta o al fatto che ci sia una volontà a negoziare con il Grande Satana perché non sanno cosa potrebbe accadere con Donald Trump. L’obiettivo più importante per la Repubblica Islamica non è difendere la sharia, la religione, lo hijab, ma la preservazione del potere. Dopo la ribellione del 2022, c’è stato un periodo cupo di disillusione e una feroce repressione. Ora però qualcosa è cambiato. La connessione fra la diaspora e la dissidenza interna è diventata più solida, le campagne internazionali hanno saputo fermare diverse esecuzioni, le proteste sono più numerose, i gesti di ribellione quotidiani pure. Il 2025 sarà un anno cruciale e alla prossima ribellione saremo tutti più preparati, mi auguro».

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