Sonia Scaccabarozzi è un’artista che ha fatto della materia e della tridimensionalità il fulcro pulsante della sua ricerca espressiva. Il suo lavoro si distingue per l’uso di materiali di recupero, trasformati con uno sguardo che intreccia poesia e concretezza. Nulla rimane statico: il gesto, ripetuto con cura, diventa una pratica di equilibrio e introspezione, specchio della complessità interiore dell’artista. «La vita non è mai bianca o nera», ama ripetere. Nata a Vimercate nel 1969, oggi vive e lavora a Merate, in provincia di Lecco.
La sua formazione artistica prende forma all’Istituto statale d’Arte di Monza, dove l’incontro con il designer e artista AG Fronzoni lascia un’impronta indelebile nel suo percorso. Da Fronzoni apprende una visione essenziale del segno e della forma, elementi che continuano a plasmare la sua arte. Dopo il diploma, Sonia lavora come grafica per Electa e Cosmopolitan, ma il richiamo della materia e della manualità la spinge verso nuove strade creative. Nel 1996, grazie al supporto del marito, abbandona la carriera per dedicarsi all’espressione artistica. L’arte diventa una forma di terapia, aiutandola a superare i momenti più bui della sua vita e i disturbi alimentari, permettendole infine di riscoprirsi e imparare ad amarsi di nuovo. Attraverso materiali come argilla, legno e metallo, Sonia sviluppa un linguaggio personale capace di raccontare la sua rinascita interiore.
L’abbiamo incontrata nel suo inarrestabile flusso creativo, tra una fiera e l’altra, tra un’opera e l’altra. Sempre in movimento, Sonia vive il fare e il rifare come un dialogo continuo con l’ispirazione e la materia.
L’arte è oggi al centro della tua vita, ma come ci sei arrivata?
Da sempre mi accompagna, fin da quando ero bambina e non riuscivo a smettere di disegnare. Non provengo da una famiglia di artisti: mio padre era operaio e mia madre casalinga. Eppure, è stata proprio lei a darmi una visione chiara. «Se devi sbagliare, sbagli tu», mi diceva, spronandomi a seguire la mia strada. Se devo riconoscere a qualcuno il merito del mio coraggio, quel qualcuno è mio marito. Non viene dal mondo dell’arte ma è il mio più grande sostenitore. Poi ci sono i miei figli e il pubblico, che ha apprezzato il mio lavoro fin dall’inizio, forse persino più di me.
L’arte mi ha così aperto porte e connessioni straordinarie. Ho incontrato artisti e collezionisti, e con alcuni sono nate vere amicizie. Amo questo scambio continuo che l’arte mi regala. E perciò senza arte non potrei vivere.
Il tuo è un mondo allegro e a colori?
La vita è complicata e amo i colori, soprattutto il blu. Mi ricorda l’acqua, ma soprattutto il cielo. La vita non è mai solo bianco o nero, né piatta. È fatta di infinite sfumature e prospettive, in cui dobbiamo immergerci. Ritrovo questa complessità nel colore e nella tridimensionalità, dove ogni angolo svela un nuovo punto di vista, una nuova possibilità di lettura.
La mente e il corpo, liberati nella creazione artistica, sembrano centrali nel tuo lavoro. Cosa vuoi raccontare con la tua arte?
Me stessa. L’arte è per me stato un processo catartico, un modo per portare in superficie ciò che sento e che non riesco a dire. È così attraverso l’arte ho imparato a ri-amarmi e superare l’abisso della bulimia, di cui solo ora riesco a parlare apertamente. Le opere nascono in modo istintivo, lasciandomi guidare dalla materia e la tridimensionalità rappresenta questa esigenza di esprimere emozioni e pensieri a tutto tondo e liberamente. Per questo il mio lavoro lo concepisco libero da cornici e teche, e mai piatto… deve venire incontro a me, a chi sono e vorrei raccontare.
L’approvazione del pubblico è perciò per te importante?
All’inizio, vedere il pubblico apprezzare il mio lavoro – anche in termini commerciali – è stato liberatorio. Mi ha aiutato a uscire da un periodo frustrante, quasi un loop. Quando ho capito che le persone potevano godere di ciò che facevo, ho iniziato a riconoscerne il valore. In passato, soprattutto all’inizio, accettavo di vendere opere che non mi convincevano del tutto, ma se piacevano andava bene. Con il tempo ho iniziato a seguire la mia strada. Ho imparato a fidarmi del mio percorso, anche senza sapere esattamente dove mi avrebbe portata. Le influenze di artisti che ammiro sono inevitabili. Nessuno inventa nulla da zero, tutto è frutto di ciò che ci ha colpito. Ma alla fine io sono finalmente io, a prescindere da tutti, anche dal pubblico.
Il metallo dopo l’argilla è stato un grande amore, vero?
L’argilla è stata la mia prima passione, l’ingresso nell’arte. Al pubblico piaceva, ma lavorarla è complesso e molto mediato, mai veramente istintivo. Nel 2015 dopo aver seguito delle lezioni su come si salda ho iniziato ad assemblare ferri di scarto: per me è stata una svolta. Il ferro è immediato, a differenza dell’argilla che richiede tempi lunghi, e questa immediatezza significa avere meno filtri alla parte irrazionale in me forse troppo repressa dalle esperienze della vita. Questa inedita rapidità ha trasformato il mio modo di lavorare, permettendomi di esprimere e tradurre in manufatti tangibili le mie emozioni in tempo reale.
Vivi di amori per materiali, che poi passano?
La materia è il mio vero amore. Tutto il resto ruota attorno a questo grande sentimento, che mio nonno mi ha trasmesso insegnandomi il valore del saper fare e del creare con le mie mani. Sento spesso il bisogno di esplorare nuove possibilità. Ho iniziato creando gioielli con vetri levigati, legno e metalli di recupero. A Monza mi sono avvicinata alla ceramica, ma presto le mie mani hanno cercato altre vie. Nel 2014 ho scoperto il legno, poi ho imparato a saldare e a lavorare il ferro. Ogni materiale ha il suo ritmo: l’argilla è lenta, il ferro immediato. Cemento e carta, fragili ma tenaci, raccontano la loro doppia natura. Ogni materiale mi ha insegnato qualcosa, in un dialogo continuo tra la resistenza e la delicatezza della materia stessa.
Quindi realizzi le tue opere da sola?
Forse è per questo che ho abbandonato il ferro: mi ha distrutto la schiena. Ma creare con le mani resta essenziale. La materia mi parla, e io l’ascolto. Non parto mai da un bozzetto: posso avere un’idea, una suggestione, ma è la parte irrazionale che scorre nelle mani e plasma la materia. Fare è pensare. Creare è dare forma alle idee, lasciando che la materia stessa guidi il processo.
Il materiale suggerisce il lavoro a livello formale?
Sì, parto sempre da un’idea che si adatta al materiale – e i materiali sono infiniti, offrendomi così possibilità inesauribili e dando forma a pensieri e stati d’animo sempre diversi. Ovunque mi volti, trovo materia per l’arte: durante alcuni lavori in casa, ad esempio, ho scoperto nuovi materiali da rivestimento per esterni come il polistirene espanso, a cui non avrei mai pensato prima con stupende patine che il tempo scolpiva su di essa. Ma, a essere onesta, da anni la carta è al centro del mio lavoro. La combino spesso con il cemento – materiali entrambi fragili, ma incredibilmente resistenti. Tuttavia, alla fine, torno sempre alla carta. Forse perché la carta non è mai una sola: è un universo fatto di sfumature materiche che continua a sorprendermi e a sfidarmi, senza mai annoiarmi. È duttile, versatile e rappresenta, in qualche modo, un ritorno alle origini, alla grafica, ma con una nuova tridimensionalità che per me ha un valore intrinseco. Forse la carta è segno oggi, che attraverso questo percorso di “fare arte”, sono riuscita a fare pace con il mio passato e con gli anni più bui.
Perché la grafica per te rappresentava o rappresenta ancora oggi un problema?
Il mio lavoro artistico mi ha aiutato ad apprezzare le imperfezioni; con la grafica non è possibile fare “sbavature”, tutto deve essere in ordine, perfetto. All’inizio era difficile tollerare i difetti nei miei lavori, ma con il tempo ho capito che quei “difetti” erano la mia libertà. Quando ho capito che ciò che facevo non era un cumulo di errori e difetti, che nulla è perfetto né viene esattamente come l’avevo immaginato, tutto è cambiato. Da quel momento, ogni cosa ha ricominciato a fluire.
Quanto influisce la ripetizione nelle tue opere?
Amo le trame perché nascono dalla ripetizione, come un tessuto che si intreccia lentamente. Forse per questo è il ciclo a cui lavoro da più tempo. Il mio è un lavoro fatto di gesti ripetuti, ma mai identici. Ogni ripetizione si evolve, trasformandosi e portandomi in direzioni sempre nuove. È un dialogo continuo tra me e la materia, un percorso che si svela passo dopo passo, senza mai essere uguale a sé stesso.
Come pensi di evolvere?
Spero di non approdare mai a una sola materia o tecnica. L’arte è una continua ricerca di se stessi. Vorrei creare arte fino alla fine, perché è una necessità vitale, è la vita.