La tecno-oligarchiaIl lato oscuro dell’età dell’oro promessa da Trump

Il presidente degli Stati Uniti gioca al piccolo alchimista, vuole trasformare il piombo delle disuguaglianze e delle tensioni sociali in ricchezza, ma è un’illusione cinica e pericolosa

LaPresse

Da quando vivo tra New York e Los Angeles – due poli di un’America che si specchia in se stessa con contraddittoria ambizione – ho capito che la distanza geografica non è soltanto fisica, ma anche cognitiva. Guardare questo Paese da vicino, attraversare le sue strade, ascoltare le conversazioni, vivere accanto alle sue persone, è un’esperienza che disintegra ogni immagine precostituita che l’Europa ci ha tramandato. L’America non è quella dei film né quella delle utopie politiche; è un mosaico inquieto, e ogni tessera si muove in un disegno che sfugge alla comprensione lineare.

Quando Donald Trump ha pronunciato le parole «L’età dell’oro dell’America inizia proprio ora» nel suo discorso inaugurale, la dichiarazione è parsa un ritorno ai miti fondativi, un richiamo a quell’età di Crono che Esiodo descrive come il tempo dell’abbondanza e della pace, quando gli uomini vivevano come dèi, liberi dal dolore e dalla fatica. Ma l’età dell’oro di Trump non è né idilliaca né pacifica. Non parla di una riconciliazione con il passato, ma di un futuro stridente, fatto di ambizioni industriali, espulsioni di massa, promesse di ricchezza e innovazione tecnologica che cozzano contro le fragilità strutturali del sistema. La sua Golden Age, come quella degli alchimisti, sembra voler trasformare il piombo delle disuguaglianze e delle tensioni sociali in oro, ma lo fa senza la precisione di un chimico, bensì con la forza di un fabbro, che plasma il metallo ignorando le crepe che si aprono sotto il suo martello.

Questo giovedì, Trump ha lanciato un messaggio agli imprenditori di tutto il mondo: venite a produrre in America, qui avrete le tasse più basse della terra; rifiutate, e pagherete una tariffa. È una proposta tanto semplice quanto pericolosa nella sua apparente linearità. Perché l’America non è – e non può essere – la Cina. Qui i lavoratori non sono numeri, ma persone che rivendicano diritti, salari, condizioni dignitose. Qui il lavoro non è sfruttamento nascosto, ma un contratto sociale che, per quanto fragile, esiste.

Eppure, mentre invita le imprese a investire in questa nuova età produttiva, Trump prepara un piano di espulsioni di massa, colpendo proprio quella forza lavoro che sostiene i settori più essenziali dell’economia. È un ossimoro politico e sociale, una strategia che si nutre di contraddizioni interne: un’America che vuole essere fabbrica del mondo, ma che espelle i suoi stessi operai. È come se Dedalo costruisse un labirinto per proteggere l’isola, dimenticandosi che Minosse non ha alcun filo per uscirne.

Questa tensione si riflette anche nelle sue ambizioni tecnologiche. Trump non immagina soltanto un’America che produce beni materiali, ma un’America che diventa la capitale mondiale delle criptovalute, la crypto nation per eccellenza. L’espansione delle criptovalute, celebrate come simbolo di libertà finanziaria e progresso, è in realtà una promessa che si scontra con le disuguaglianze che crea.

Il mercato delle criptovalute, oggi valutato oltre mille miliardi di dollari, cresce a un ritmo impressionante, ma lo fa concentrando la ricchezza nelle mani di pochi. Negli Stati Uniti, solo il quattordici per cento della popolazione adulta possiede criptovalute, e il settantuno per cento delle transazioni è gestito da un’élite finanziaria che domina il mercato. A Los Angeles, il Crypto.com Arena è diventato il simbolo tangibile di questa transizione. È un tempio moderno, non dedicato ad Atena o a Marte, ma alla tecnologia, al capitale fluido e inafferrabile che ridisegna le gerarchie economiche.

Tuttavia, sotto la superficie di questa rivoluzione digitale, si nascondono rischi enormi: l’instabilità del mercato, il pericolo di frodi e la quasi totale assenza di regolamentazione creano un ambiente che non è equo né inclusivo. L’ombra che si allunga su questa promessa di ricchezza è quella di una tecno-oligarchia, un’élite che concentra nelle proprie mani non solo il potere economico, ma anche quello tecnologico, lasciando la maggior parte della popolazione a lottare ai margini. È un ritorno a quella disparità che John Stuart Mill denunciava, quando scriveva che «la libertà, senza uguaglianza, è una maschera che nasconde il privilegio».

E l’Europa? Silenzio. Nel suo discorso inaugurale, Trump non ha menzionato il vecchio continente. Non c’è spazio per il dialogo con chi rappresenta il passato, con chi, nella narrazione trumpiana, è ormai marginale. L’America non guarda più a Ovest, ma a Est, verso l’Asia, verso i mercati emergenti, verso un mondo che Trump vuole conquistare non con la diplomazia, ma con l’economia. L’Europa diventa così una figura mitologica che ha perso il suo potere; non più Zeus che rapisce la giovane per darle un futuro glorioso, ma una madre anziana e dimenticata, relegata ai confini della narrazione geopolitica.

Eppure, non possiamo limitarci a criticare Trump come figura simbolica. Farlo significherebbe scivolare nella superficialità del giudizio morale o nella facile condanna estetica. Trump non è solo un uomo, né soltanto un presidente; è una sintesi vivente delle forze che oggi attraversano la società globale: il nazionalismo economico, la disuguaglianza sistemica, l’illusione del progresso tecnologico come panacea universale. Ridurlo a un’immagine, a un’iperleggenda, significa mancare l’occasione di comprendere le dinamiche profonde che egli incarna e che continueranno a plasmare il nostro tempo, indipendentemente dalla sua figura personale. È qui che il pensiero deve farsi tagliente, deve scavare nel terreno per rivelare le radici delle contraddizioni che questa nuova età dell’oro porta con sé.

La grandezza di Trump, nel bene o nel male, risiede nella sua capacità di esprimere con brutale chiarezza le tensioni del mondo contemporaneo: il sogno americano che si rifugia nel passato, cercando una grandezza mai veramente esistita; la rivoluzione tecnologica che si presenta come emancipazione ma che concentra il potere in nuove mani; la promessa di un’economia inclusiva che si scontra con la realtà di una società sempre più frammentata.

Questi non sono problemi esclusivi dell’America di Trump; sono dilemmi universali, che ci riguardano tutti. Se ci limitiamo a condannarlo, ci priviamo dell’occasione di affrontare le vere domande: quale modello di progresso vogliamo costruire? Quale equilibrio tra libertà e uguaglianza riteniamo necessario? Qual è il ruolo dell’etica in un mondo che si lascia guidare dall’efficienza e dal profitto?

Non si tratta di affermare giudizi né di tracciare condanne. Trump è ciò che è, non un’eccezione, ma l’espressione più esplicita di una trasformazione globale che non ammette ipocrisie né finzioni. La sua età dell’oro non promette un futuro di armonia, ma svela un mondo che vive nel paradosso: un progresso che avanza fagocitando le sue stesse fondamenta, una ricchezza che concentra il potere mentre frammenta le comunità. Non c’è bisogno di sentenze, perché i fatti parlano con una chiarezza brutale: l’America non cerca di risolvere le sue contraddizioni, ma di spingerle fino alle estreme conseguenze, di riplasmarle come se fossero inevitabili. Forse non è una scelta, ma una condizione.

E noi, che osserviamo, non siamo giudici né guide. Siamo semplicemente testimoni di un esperimento che non riguarda solo l’America, ma l’idea stessa di modernità. Riconoscerlo significa rinunciare a ogni conforto, abbandonare il desiderio di risposte consolatorie. Significa accettare che non esiste un punto d’arrivo, ma solo un processo in cui ogni certezza si rivela, prima o poi, transitoria. Forse è questo, in fondo, il vero significato del nostro tempo: la consapevolezza che ciò che ci appare come progresso è, al contempo, trasformazione e perdita, potenza e fragilità, promessa e rischio. E non resta che prenderne atto, senza illusioni, ma con uno sguardo che non smetta mai di cercare.

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