Unreal estateL’irresponsabile leggerezza di Trump sul futuro della Striscia di Gaza

Il presidente degli Stati Uniti suggerisce di trasferire 2,4 milioni di profughi palestinesi in Giordania. L’estrema destra israeliana esulta, ma ulteriori immissioni di gazawi farebbero drammaticamente saltare tutti i precari equilibri politici

AP/Lapresse

Ma Trump ci è o ci fa? Le sue chiacchiere su Gaza con i giornalisti durante un viaggio presidenziale hanno dell’incredibile per la loro leggerezza irresponsabile. Con tono salottiero, il presidente degli Stati Uniti ha buttato lì l’ipotesi di spostare via tutti i palestinesi da Gaza per farne un bel resort per vacanze, visto il clima, poi si vedrà, è indifferente, se farli tornare o meno nella loro terra. «Ho parlato col re di Giordania e gli ho detto che vorrei che prendesse altri profughi perché, guardate, adesso nella Striscia di Gaza è un disastro, stiamo parlando di un milione e mezzo di persone, dobbiamo ripulire tutto. Dobbiamo fare qualcosa, al momento è un sito di demolizione, quasi tutto è demolito e la gente sta morendo, Gaza dovrebbe essere ricostruita in modo diverso. È una location fenomenale, sul mare… ha un clima ideale… è tutto bello, si potrebbero fare delle cose belle lì, è molto interessante. Così vorrei essere coinvolto con alcune nazioni arabe e costruire abitazioni in posti diversi, in modo che possano vivere finalmente in pace, potrebbero essere temporanee o a lungo termine», sono state le sue parole.

Naturalmente, la destra fascista israeliana al governo, per bocca di Bezalel Smotrich e Itamar ben Gvir, le ha subito approvate entusiasta. Ma non è neanche detto che il Trump abbia voluto schierarsi con loro. Da quel che sembra, come spesso gli capita, l’ha semplicemente buttata lì, tanto per dire, per parlare, con irresponsabile leggerezza. Per fare colpo sui giornalisti che l’ascoltavano. A metà tra l’imbonitore da talk show e l’immobiliarista. Poi, qualche giorno dopo, a freddo, ha ribadito il concetto, sempre in modo confuso. Ovviamente, questa sua proposta irresponsabile ha provocato un’ondata di reazioni. 

Chi conosce la regione – ovviamente non lui – sa benissimo infatti che lo spostamento di due milioni di profughi gazawi, oltre a sradicare un popolo dalla sua terra, provocherebbe un effetto da bomba atomica nei paesi di destinazione. Nella Giordania citata da Trump ci sono già 2,4 milioni di profughi palestinesi, più di seicentosettantacinquemila profughi dalla Siria su una popolazione di soli dieci milioni. 

Il regno si regge su un precario equilibrio politico che si basa – non va dimenticato – sul massacro di palestinesi del Settembre Nero del 1970 col quale re Hussein vanificò il tentativo di Yasser Arafat di fare un colpo di Stato palestinese per prendere il controllo del governo di Amman. Ulteriori immissioni di palestinesi, per di più ampiamente infiltrati da Hamas, cioè dai Fratelli musulmani, all’opposizione del governo di Amman, farebbero drammaticamente saltare tutti gli equilibri politici e produrrebbero semplicemente un cataclisma. La Giordania quindi, educatamente, ha mandato a quel paese Trump e la sua improvvida proposta.

Da parte sua, l’Egitto ha da sempre blindato gli arrivi di palestinesi da Gaza per varie ragioni, non ultima la sua incapacità cronica di tenere sotto controllo l’azione terrorista dell’Isis nella regione di El-Arish, confinante appunto con la Striscia, che ha già provocato centinaia di vittime tra le sue forze armate. Inoltre, il dittatore egiziano, Abdel Fattah El-Sisi, ha preso il potere per distruggere i Fratelli Musulmani che con Mohammed Morsi avevano vinto le elezioni e stavano portando il paese al disastro. Fare entrare in Egitto un milione o più di gazawi tra i quali i Fratelli musulmani di Hamas si muovono come pesci nell’acqua significherebbe fare un enorme favore ai propri principali avversari.

Quindi sono immediatamente arrivati due enormi e definitivi no alle ipotesi fantasiose di Trump sia dal governo di Amman sia da quello del Cairo, che addirittura si rifiuta di iniziare a parlare del tema. Non solo, un no altrettanto netto sarebbe stato espresso dal saudita Mohammed bin Salman, che pure Trump considera il proprio interlocutore in Medio Oriente, il quale non può, per ragioni di prestigio e di politica interna, non mostrarsi, sia pure tiepidamente, difensore strenuo degli interessi dei palestinesi. Tanto che, paradossalmente, l’unica speranza di una mediazione accettabile tra le ragioni di Israele e quelle dei palestinesi potrà forse venire proprio dalla medioevale e per tanti aspetti feroce dittatura saudita.

Ma Trump non fa caso alla complessità del quadro mediorientale. Perché, appunto, un po’ ci è e un po’ ci fa. Lancia il sasso, nasconde la mano e vede l’effetto che fa. Poi ci riprova. Una strategia di politica estera irresponsabile, in particolare nel ginepraio secolare del Medio Oriente, che fa grandi danni.

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